La convivenza tra il minerale, il poeta di pietra e il vegetale, il bosco di Casacalenda
di Francesco Manfredi-Selvaggi
È uscito alla fine del 2021 il libro di Massimo Palumbo sull’esperienza del MAACK di Casacalenda della quale egli ne è stato l’animatore. Tra le tante storie qui riportate in occasione del trentennale sulle vicende che hanno attraversato questo museo ce n’è una particolarmente significativa che riguarda il taglio boschivo nell’area in cui è collocata l’opera di Costas Varotsos.
È un intervento artistico particolare, con molteplici particolarità per cui sollecita una molteplicità di riflessioni. Ci concentreremo su tre aspetti cominciando da quello della sua monumentalità al quale seguiranno quello della sua collocazione nel bosco e quello della sua, diciamo così, ritrosia a farsi ammirare. Non è una scultura e, peraltro, non ha neanche la pretesa, o l’aspirazione, di esserlo anche perché, al di là di tutto, non è a scala umana a differenza, con l’eccezione del celebre Colosso di Rodi, della generalità delle opere scultoree; in specie di quelle che intendono raffigurare l’uomo come fa il colossale, aggettivo non casuale, individuo pietrificato di Casacalenda.
Si è citato incidentalmente il Colosso di Rodi e, però, non è stato un mero incidente in quanto tale citazione è funzionale pure ad un altro ragionamento che è il seguente: la grandezza inusitata di questa statua suscitò un’enorme meraviglia nell’antichità da divenire una delle 7 Meraviglie del Mondo, cosa, la dimensione fuori scala, beninteso umana, che oggi non stupirebbe particolarmente dati i mezzi tecnici che abbiamo attualmente per realizzarla. L’installazione di Kalenarte è stata resa possibile dai montacarichi a motore per sollevare le pesanti lastre lapidee che la compongono, dai camion per il trasporto di tali lastre, dal cemento, il materiale simbolo della modernità, per renderle solidali l’un l’altra.
Su un simile intervento le questioni logistiche devono aver avuto un notevole peso tanto più che non si è trattato di un cantiere ordinario, bensì in ambito forestato, si pensi al transito a zig-zag dei veicoli tra le piante. Il secondo dei tre punti da trattarsi è proprio quello dell’inserimento dell’arte-fatto art-istico in una superficie boscata. Si è innestato un elemento antropico, e per di più grosso, l’uomo di pietra, in un ambiente naturale, il bosco è il massimo della natura, ed è evidente che ci sarebbe stato un qualche attrito tra questi due fatti completamente diversi fra loro.
Tale distonia è emersa con forza al momento del taglio, programmato della sezione boschiva (parole del gergo tecnico) in cui rientra l’uomo di pietra: essa ha messo a nudo, letteralmente, il gigante calcareo che è rimasto scoperto, o meglio coperto solamente dal muschio e dai licheni che vi si sono aggrappati sopra nel tempo. È un’immagine, quella della nudità di quest’omone, non di certo oscena, che nell’arco di vita di una persona si ripresenterà, ciclicamente, quattro volte; infatti, il turno della ceduazione (ancora un termine tecnico gergale) per il cerro è di venti anni, mentre la nostra esistenza ha durata, in media, di ottant’anni.
In tali scadenze ventennali il misterioso personaggio rimasto impietrito per chissà quale ragione rimane completamente denudato, ma ciò si verifica anche, anche se in maniera parziale, dalla “cintola in su” direbbe il Poeta, con cadenza, ovvero scadenza, bistagionale allorché in autunno cadono le foglie delle essenze arboree di latifoglia che formano questo querceto. In qualsiasi caso, sia nel caso della fluttuazione delle stagioni, sia nel caso dei turni di taglio stabiliti dalle norme forestali, l’uomo di pietra, concepito, o così mi pare, per rappresentare la condizione esistenziale contemporanea di essere un essere isolato nella folla, impersonata quest’ultima dagli alberi che affollano, appunto, il boschetto, solo temporaneamente è solo, decontestualizzato; ogni primavera il fogliame ricrescerà, ogni due decenni le antiche e vigenti tutt’ora regole del ceduo, nuove piantine si svilupperanno dalla base dei tronchi abbattuti.
Cambiando ipotesi interpretativa, quel che succede nel bosco di Casacalenda può essere sentito come la contrapposizione tra il mondo minerale, simboleggiato dall’uomo di pietra, e quello vegetale, la formazione boschiva; il primo è immutabile, si pensi alle rocce, il secondo è in perenne evoluzione, è soggetto a fasi alternate di crescita e di deperimento, è in continua trasformazione. Va, comunque, segnalato che, per legge nazionale, è vietato mutare la destinazione del suolo coperto da vegetazione forestale e ciò ne garantisce la perpetuità.
Ciò che potrà succedere è che a modificare la scena pensata dall’artista ora assimilabile ad uno scenografo non è la distruzione del bosco, il fondale del palcoscenico, la tempesta Vaira qui non è preventivabile, quanto piuttosto il crollo dell’uomo di pietra, il protagonista assoluto, a seguito di una violenta scossa sismica il territorio essendo ad elevata sismicità; beninteso sempre che l’area non diventi teatro, adesso una tragedia teatrale, di eventi bellici, al momento uno scenario (sinonimo di scena) non credibile anche se viviamo in tempi di guerra.
In un’operazione di Land Art il prodotto autoriale si relaziona al contesto paesaggistico in cui viene calato e da qui scaturisce il rimando alla messa in “opera” proposto nel periodo precedente. Per concludere su questo punto, il n. 2 della serie che ci si era prefissa, il bosco, essendo intangibile, è il luogo più sicuro per le azioni di Land Art; esse altrove rischiano di venire vanificate, subire la perdita di senso a causa della modificazione dell’intorno. Infine, finalmente, siamo giunti al terzo aspetto che è quello della scelta dell’autore di realizzazione della sua creazione in un angolo defilato e gli indizi che lo fanno presupporre sono tre.
I primi due sono connessi all’ubicazione in un areale piantumato in cui è facile mimetizzarsi nascosti fra le piante e in cui regna l’oscurità impedendo le fronde della fitta piantumazione la penetrazione della luce. Il terzo segnale di quanto poco interesse l’artista abbia verso gli sguardi del pubblico è la scelta di ubicare il suo lavoro lontano dall’abitato. Tutto ciò contrasta con il suo essere, quantomeno per la stazza, spettacolare, non, di certo, un oggetto discreto; è contraddittorio, lo si ammette, però è così. La ricerca di riservatezza da parte dell’opera d’arte è plausibile sia connessa al rifiuto di interagire con i luoghi della quotidianità per sottrarsi al meccanismo dell’assuefazione della vista.
Desidera venire scoperta a seguito di una qualche fatica, anche quella di individuare la località, le sue coordinate geografiche; si noti che non si è usata l’espressione “venire alla luce” perché il bosco è scuro ed è tale sia di giorno che di notte quando il buio si accentua e la visione dell’uomo di pietra acquista un non so che di spettrale, un autentico effetto speciale che non si sarebbe potuto ottenere nel centro urbano per via dell’illuminazione cittadina. E, poi, mettete, mettendovi nei panni di questo uomo, cosa c’è di meglio che stare in contatto con la natura.
Francesco Manfredi Selvaggi637 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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