La capanna non con il bue e l’asinello, ma con le pecore

di Francesco Manfredi-Selvaggi

È quella che si incontra sul Matese ed è utilizzata dai pastori durante l’alpeggio. Non è natalizia, bensì estiva. È una particolare tipologia edilizia, innanzitutto perché ha i caratteri della temporaneità e poi perché è fatta da materiali prelevati in loco, a km. 0 (Ph. M. Martusciello-Capanna con stazzo sulla Soda Roccamandolfi) 

Per affrontare il tema dei ricoveri pastorali bisogna iniziare dalla descrizione di una tipica capanna. Prendiamo come modello quelle poste ai piedi del Colle Bellavista nei pressi di Campitello, ma gli stessi caratteri tipologici li ritroviamo in altre località del Matese. Innanzitutto vediamo che la capanna è addossata ad un pendio con i Iati corti che seguono il suo andamento; essa dispone l’ingresso, anche al fine di evitare la penetrazione al suo interno dell’acqua di ruscellamento, nel lato più basso che, quindi, risulta protetto dalla parte retrostante del manufatto.

Del resto è inevitabile che l’accesso sia posto su questo lato perché gli altri lati sono incassati nel pendio (quello opposto totalmente). L’accesso deve essere frontale, cioè in un lato corto, e non laterale per due ragioni che poi sono un tutt’uno, l’una che la forma cosiddetta “a capanna” prevede qui la parete più alta permettendo così l’ingresso e l’altra che solo quello corto è un lato interamente verticale a differenza dei lati lunghi nei quali alla parete si sovrappone la falda di copertura. Il varco di accesso occupa quasi interamente il fronte.

L’architrave può essere formato da un’unica lastra di pietra calcarea o da un robusto tronco d’albero. Manca una vera e propria porta e tutt’al più a chiusura dell’ingresso vi è una rozza grata di legno. Ovviamente non esistono finestre che, d’altrocanto, sarebbe impossibile aprire data la ridotta altezza dei muri perimetrali. Ci soffermiamo ora sulle caratteristiche della struttura muraria. Si tratta di muratura irregolare con pietre disposte a secco. Proprio per l’assenza della malta occorre utilizzare, per garantire la stabilità dell’opera, massi di pezzatura piuttosto grande.

Questo è un aspetto tecnologico fondamentale che condiziona anche l’altezza della costruzione: essa deve necessariamente rimanere bassa poiché è difficile la messa in opera di pietre grandi dopo che il muro ha raggiunto una certa altezza essendo difficoltoso alzare questi massi per portarli alle quote superiori. Pertanto il muro della capanna si limita alla parte basamentale del volume che, all’interno, è costituito, pur formando un unico ambiente, da una prima zona compresa tra le pareti verticali e una zona superiore racchiusa dall’introdosse delle falde inclinate del tetto.

ln qualche maniera, così come succede in altri tipi di capanne (ad esempio le “pagliare”), la muratura può essere considerata il basamento di altre strutture. Il muro basamentale ha pure un’altra funzione che è quella di anello livellatore nei casi di terreni scoscesi, come nel caso di studio, per assicurare un appoggio orizzontale alla copertura. Passiamo adesso all’esame della copertura basandoci su pochi scarsi indizi e sul raffronto con le poche testimonianze rimaste, seppur deteriorate, in quanto le coperture tipiche sono state sostituite con fogli di lamiera o lastre di eternit.

Il tetto era formato da due falde con spioventi sorretti da una serie di pali poggianti sui muri laterali. Si tratta di pali in legno flessibile, quindi di grossi rami, e non di tronchi rigidi. Questi pali richiamano i pali utilizzati in altre capanne primitive presenti nell’area molisana, ancora le “pagliare” che venivano infissi al suolo e il loro essere conficcati nel terreno assicurava la solidità della struttura. Certamente l’adozione dei pali che hanno una sezione resistente inferiore a quella del tronco limita le dimensioni degli spazi ed, appunto, le capanne pastorali sono di larghezza ridotta.

Vi sono particolari tecniche d’incastro dei pali, dall’impiego di robusti legacci per impedire lo scivolamento dei rami inclinati alla scelta di pali con forcella per ottenere un mutuo contrasto. Su questi puntoni inclinati sono legati altri rami minori a sostegno del manto di chiusura ottenuta poggiando sopra la ramaglia zolle di terra e muschio. Se si riconosce al tetto una funzione più ampia di quella di sola copertura, ma anche di involucro dello spazio interno e, perciò, analoga a quella del telaio obliquo che forma la “pagliata” si può rilevare che nella capanna pastorale convivono due tipi di strutture, l’una, quella della muratura, che è insieme portante e chiudente e, quindi, continua e l’altra, quella del tetto, che è discontinua poiché i pali sono portanti, ma non chiudenti (a chiudere ci pensano le zolle di terra e le frasche).

Un’ulteriore osservazione è relativa ai materiali adoperati nella costruzione che sono la pietra ed il legno, ambedue materiali impiegati cosi come si trovano in natura al contrario, mettiamo, del mattone che invece deve essere prodotto poiché l’argilla per essere utilizzata nelle costruzioni presuppone un processo di trasformazione tecnologico; nelle capanne pastorali, poi, non compare mai il metallo (neanche sotto forma di chiodi utili per bloccare al loro incrocio i pali che reggono le falde del tetto) che non è un materiale facilmente reperibile.

Non abbiamo citato tra i materiali anche le zolle di terra in copertura in quanto ad esse vogliamo dedicare una speciale considerazione: trattandosi di materiale deteriorabile il loro impiego indica che il ricovero non è destinato a durare a lungo nel tempo. Da ciò si desume che le capanne pastorali sono precarie, a differenza dei manufatti agricoli, e ciò va collegato alla natura di questa pastorizia che pratica l’alpeggio, una consuetudine che deriva, anche se alla lontana, dal fenomeno del nomadismo.

Finora abbiamo visto l’involucro, da questo momento entriamo nella capanna. Il piano di calpestio è costituito da terra battuta e solo in qualche caso da lastre di calcare. Il letto è fatto da una struttura di legno poiché il giaciglio, dovendosi evitare l’umidità del suolo e non bastando una stuoia, deve essere rialzato da terra. Il letto è l’elemento fondamentale di una capanna pastorale la cui principale funzione è quella di ricovero notturno. Sia in orizzontale sia in verticale le dimensioni della capanna sono in dipendenza del letto.

Si può dire che planimetricamente il modulo formativo di una capanna è dato dalla porzione di terreno occupata da una persona distesa; anche l’altezza è in relazione alla posizione sdraiata o seduta (occorre considerare, a questo proposito, che per permettere ad un uomo di stare all’impiedi all’intemo di una capanna sarebbe necessario aumentare l’altezza dei muri, cosa che, essendo muri a secco è difficile). Nelle capanne più complesse e costruite più di recente quindi con materiali migliori dove si può stare eretti si riscontra una distinzione funzionale tra la zona-giorno e zona-notte.

Mentre in questa seconda stanza si dorme, la stanza vicina serve a preparare i pranzi o a lavorare il latte per farne il formaggio e qui si trova il focolare che nelle capanne pastorali primitive è situato al di fuori. Pure il posto usato per accendere il fuoco ha avuto una trasformazione perché all’inizio era il centro del vano e poi ha cominciato ad addossarsi al muro ricoperto da una cappa di camino. Siamo arrivati ai rifugi pastorali più progrediti che rappresentano una evoluzione delle capanne pastorali originarie, e che sono, in un certo senso, i progenitori delle nostre case se, allargando lo sguardo, si passa dalla montagna alle zone collinari dove sono ubicati gli insediamenti umani.

Questa operazione mentale è legittima se si tiene conto che siamo all’interno del medesimo ambito culturale dal quale derivano i modi costruttivi della tradizione locale. E lecito tale collegamento logico in quanto si tratta, quelle pastorali, di capanne in muratura (contrariamente, per capirci, alle “pagliere”) e la robustezza delle pareti dà la possibilità di appoggiarvi solai contigui che sono, poi, un connotato essenziale delle case. Qui non si intende solo dimostrare una discendenza della casa rurale, isolata in campagna, dalla capanna pastorale, ma pure un rapporto tra quest’ultima e le case urbane.

A questo scopo va notato che le capanne essendo rettangolari ed avendo pareti verticali (a differenza, ad esempio, delle tende dei pellerossa che sono di pianta circolare e coniche) possono aggregarsi fra loro e dar luogo ad un agglomerato abitativo. Il ragionamento sviluppato sopra può sembrare forzoso se non si riflette sul fatto che la capanna e la casa sono frutto dell’unica cultura architettonica formatasi in questo luogo. Ambedue questi manufatti sono utilizzati dalle medesime persone le quali hanno provveduto direttamente o collaborato alla loro realizzazione perché siamo di fronte ad un’architettura senza architetti e, a volte, senza neanche muratori (come testimoniano le capanne pastorali).

Se la congerie culturale che permea questi manufatti è la stessa essa è, però, differente da quella che si è affermata in altre zone dove vi sono capanne (usiamo sempre le “pagliere” come prova) totalmente diverse. Mentre la cultura edilizia moderna tende ad imporre una soluzione architettonica standard in ogni luogo giungendo a costruire con prodotti industrializzati, nella cultura tradizionale vi sono tante risposte costruttive quante sono le specificità ambientali. Si ha, per quest’aspetto, un paradosso e cioè che mentre da un lato la dimora tradizionale ha, tra i manufatti costruttivi, il più alto grado di tipicità, dall’altro lato essa è la più variabile in quanto deve far fronte a sfide ambientali diversissime.

Oggi si ha difficoltà a cogliere queste differenze per il processo di omologazione affermatosi nella produzione edilizia, difficoltà che d’altro canto vi erano pure in passato quando per la scarsità delle informazioni la costruzione locale era per chi risiedeva in quel posto l’unico tipo edilizio possibile al mondo. Ripartendo da questi concetti e ritornando alla capanna occorre evidenziare che questa non era la sola forma di riparo per i pastori perché accanto ai ripari costruiti, appunto la capanna, vi erano i ripari naturali.

Se questi ultimi possono essere considerati ricoveri occasionali è più perché non si trovano dappertutto come i tronchi cavi di faggi secolari (in uno dei quali si nascondeva il brigante Samuele con la sua banda sull’omonimo colle vicino alla Gallinola) e come le caverne, che perché siano luoghi di ospizio inadatti del tutto (la cavità della grotta delle Ciaole pur presentando umidità e scarsa luminosità è un rifugio sicuro contro le intemperie). Si può affermare, in conclusione, che dal riparo si è passati alla capanna e da questa alla casa, ma che non si tratta di una semplice evoluzione perché tutte e tre hanno sempre conservato una ragione d’essere funzionale, per la loro specializzazione d’uso, che ne ha permesso la trasmissione fino a noi.

Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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