Il Molise al voto (seconda parte)

di Nicolino Civitella

Riceviamo e volentieri pubblichiamo un contributo che da punti di vista differenti, analizza la prospettiva delle imminenti elezioni regionali.

In considerazione della corposità dell’articolo, lo pubblichiamo in due parti per favorirne la fruizione

PRIMA PARTE

La sinistra (o il centro sinistra) quale strategia può opporre? Bene la rinuncia al potere per il potere, ma poi deve saper cogliere le istanze dei cittadini e affrontarli in un’ottica che non sia, appunto, quella dei concorrenti (clientelismo). E per farlo, le proprie ricette non le può costruire a tavolino, ma deve calarsi nel vivo della realtà, di tutta la realtà del sistema economico sociale (con particolare riguardo al settore delle imprese manifatturiere, mai tirate direttamente in ballo nel dibattito politico quasi interamente riservato alle problematiche rurali), dove deve “recare” e “attingere”, cercando di non lasciarsi prendere la mano, magari a sproposito, da esaltazioni ideologiche.
Entro nel merito con qualche esempio.

Secondo alcune letture della realtà, la crisi in cui versa la regione Molise va addebitata al modello di sviluppo realizzato negli anni ‘70, poiché la sua pretesa di puntare sull’industrializzazione confliggeva con la più autentica vocazione del suo contesto economico-sociale, quella rurale. L’argomento non lo si può liquidare con poche battute e quindi mi astengo dall’affrontarlo. Tuttavia mi sia consentita un’osservazione: come mai la nostra vocazione rurale non è stata in grado di accogliere gli innesti proprio di alcune filiere agricole? Mi riferisco alla filiera della bietola (zuccherificio), delle carni (frigomacello prima e poi la Sam), del pomodoro (conservificio Valbiferno). Ma su questo, niente.
A proposito dello zuccherificio vorrei aggiungere una breve chiosa.

Negli anni ’70 lo Zuccherificio fu uno dei simboli della modernizzazione industriale della regione, peraltro quello che sembrava più consono, considerato che esso rappresentava il punto terminale di una filiera agricola. La sua gestione è rimasta sempre sotto il controllo pubblico, per quanto l’originaria previsione fosse quella di un affidamento ai privati.
Quando nel 2005 la UE, nell’ambito delle sue politiche economiche a livello internazionale determinò, in cambio di cospicui incentivi risarcitori, la chiusura di quasi tutti gli zuccherifici italiani, la Regione Molise si prodigò strenuamente per mantenere in attività il proprio con l’argomento che sarebbe stato l’unico a rimanere in vita nel Sud, pur nella consapevolezza che non avrebbe retto alla prova del mercato. La richiesta venne accolta.

A questo punto due erano le strade percorribili: la prima, quella di pervenire attraverso ricerca e sperimentazione alla produzione di una qualità bietola con un elevato tasso di saccarosio e all’ammodernamento dei macchinari, in maniera da reggere il mercato; la seconda, quella di preservare l’ottica di un’industria assistita con finanziamenti pubblici.
Inutile dire che la scelta ricadde su questa seconda opzione, con le inevitabili conseguenze: chiusura dello stabilimento e perdita degli incentivi (ricordo bene gli annunci trionfali della Petescia al ritorno da Roma di Iorio con in tasca tutti milioni necessari a coprire l’ennesimo buco di bilancio).
Ecco, il rapporto con l’Università. Fare sistema. Questo è ciò che è mancato ed era invece la strada da seguire. Potrei fare tanti altri esempi.

Ancora un paio di osservazioni.

I più accaniti propugnatori della ruralità (quelli che attribuiscono al settore agricolo un ruolo salvifico) parlano della necessità di salvaguardare il paesaggio (lodevole), parlano ancora di produzioni bio (anche questo lodevole). ma non producono uno straccio d’analisi sulla realtà agricola molisana: accorpamento fondiario in tutte le aree interne ad opera di imprenditori diretti coltivatori che trovano le loro convenienze nella coltivazioni cerealicole, le quali, com’è noto, non producono occupazione aggiuntiva rispetto a quella fornita dal nucleo familiare. Come dire che puntare tutto sull’agricoltura si lavora per la scomparsa del Molise. E non è raro trovare tra questi propugnatori coloro che manifestano nostalgie per il mondo contadino più arcaico.

Un’ultima considerazione la voglio riservare al tema del neoliberismo chiamato in causa, non sempre a proposito, ad ogni piè sospinto.
Che dopo il crollo dell’URSS il capitalismo liberista occidentale abbia brindato al suo trionfo imponendo le proprie leggi di mercato di natura speculativa, non vi è alcun dubbio. E bene si fa ad addebitargli tutto quello che gli si addebita. Ma non si può ignorare che dopo il crollo del mondo bipolare, nella scena mondiale accanto al capitalismo liberista sono sorti il capitalismo oligarchico russo e quello statalista cinese. Praticamente il mondo è divenuto tutto capitalista. Dunque, oggi, quando si parla di capitalismo non ci si può limitare a quello liberista occidentale, perché in questo caso si farebbe ricorso ad una faziosità pregiudiziale che non renderebbe un buon servizio alla stessa causa.
E allora a questo punto la domanda delle domande è come fronteggiare il capitalismo mondiale, con quali strumenti? È evidente che una visione ancora euro-centrica, o anche occiduo-centrica, non è adeguata allo scopo.

Poi si dice : il capitalismo per sua natura si fonda sul principio della infinità delle risorse ma il principio è contraddittorio perché il mondo non avendo risorse illimitate, non può sopportare uno sviluppo illimitato. Giusto. Ma il mondo non può reggere nemmeno una popolazione che cresce all’infinito. Nel 1950 la popolazione mondiale raggiungeva i 2 miliardi e mezzo. Nel 2050 si prevede una popolazione di 10 miliardi: nell’arco di un secolo una quadruplicazione (e questo significa, più consumi, più inquinamento, indipendentemente dal capitalismo). I problemi come si vede sono molto seri e allora lasciamo stare le chiacchiere a buon mercato, quando parliamo dei problemi della nostra micro realtà.

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