Altilia nascita, sviluppo, decadenza e morte di una città

di Francesco Manfredi-Selvaggi

Il ciclo di vita di Altilia è stato, tutto sommato breve, circa 500 anni. È sorta qualche secolo prima dell’avvento dell’Impero e si è conclusa dopo la sua caduta, ha vissuto, cioè, tutta la parabola dell’età d’oro della civiltà romana. Poi è caduta in un lungo letargo, se così si può dire, dal quale si è iniziata a risvegliare in età contemporanea con gli scavi archeologici che hanno fatto riemergere le sue vestigia. Per oltre un millennio era scomparsa addirittura dalla memoria. Un flebile legame con il mondo dei viventi è stato il tratturo che la attraversa per il passaggio della transumanza (Ph. F. Morgillo)

È vero che Altilia ha come marchio di fabbrica l’essere una colonia, cioè un centro da popolarsi con gente proveniente da altre zone dei domini di Roma che viene trapiantata lì in modo che così fosse assicurata la fedeltà della città creatura dell’Urbe, un suo avamposto in un territorio ostile qual era il Sannio, ma è altresì vero che qui si trasferirono, obbligatoriamente e volontariamente nello stesso tempo, le popolazioni ormai assoggettate che al momento della conquista romana erano presenti in quel comprensorio.

In qualche modo questa unità urbana è derivata dalla fusione, forzata o meno, di più villaggi sannitici, oltre che, lo si è detto, da forestieri, i coloni stabilitivisi per volere dei conquistatori. La comparsa di Saepinum ha quale contraltare, pertanto, l’abbandono dei precedenti siti italici, da quello di Terravecchia a quello di monte Saraceno a quello di colle S. Rocco. In definitiva, si è trattato nel contempo di una colonizzazione e di un sinecismo. Quest’ultimo non è stato un fenomeno artificioso perché già antecedentemente se i luoghi dell’abitare erano separati vi erano momenti di vita comunitaria legati alle pratiche di culto le quali si svolgevano presso il santuario di Ercole Curino e alla sepoltura dei morti nelle necropoli di Vicenne e di Cantori, sempre a Campochiaro.

La sfera spirituale, la religiosità è un valore fondamentale, era vissuta in comune. Non una fusione a freddo, dunque, bensì a caldo. Che dovesse essere la piana formata dai depositi alluvionali del fiume Tammaro ubicazione dell’insediamento da fondare è abbastanza scontato in quanto per realizzare un’entità insediativa di dimensioni significative occorreva necessariamente una pianura, per una cittadina di una certa estensione sono poco adatti i suoli in pendio.

C’è, poi, da tener conto che lo schema impiegato dai Romani il disegno della pianta delle loro fondazioni coloniali è, di regola e Altilia non fa eccezione, quello castrense, modello urbanistico che si cala bene su terreni pianeggianti, anzi è indicato esclusivamente per questi altrimenti bisogna ricorrere, vedi Bovianum, ad un impianto urbano a terrazze sull’esempio di Priene considerato il capostipite di tale tipo di urbanistica. È da evidenziare che il castrum rappresenta una tipologia elementare se non rudimentale, una specie di abitato “quadro e squadro”, assai semplice e, però, ritenuto sufficiente per un agglomerato qual era la Sepino delle origini assai primitivo, il riferimento tipologico che fu scelto era quello di un accampamento militare.

Di certo la nostra città non era stata dotata di un Piano Regolatore Generale e, di conseguenza, non vi era il Programma Pluriennale di Attuazione, strumento, lo dice la parola stessa, attuativo del primo, per cui le fasi di sviluppo dell’aggregato edilizio sono state discontinue, a quella iniziale di annucleazione si sussegue prima un consolidamento del tessuto abitativo e, poi, quando la formazione dell’insieme urbano appare ormai completata si innesca un processo di trasformazione dell’edificazione esistente in senso monumentalistico e contemporaneamente l’addensamento del costruito cui segue la saturazione degli spazi liberi preferendo procedere, per quanto riguarda quest’ultima, anche temporalmente, tendenza, al riempimento dei vuoti sussistenti nell’insieme edilizio piuttosto che all’occupazione delle superfici del quartiere appositamente destinato all’ampliamento dell’abitato il quale non venne mai urbanizzato rimanendo da allora privo di case e di infrastrutture.

Per l’economia del discorso si tralascia l’illustrazione punto per punto di quanto è avvenuto e si passa direttamente alle conclusioni, o meglio alla conclusione, cioè alla fine di Altilia. Il termine definitivo di vita della cittadina deve essere stato preceduto da un periodo di lenta decadenza in coincidenza con la crisi delle istituzioni municipali verificatasi nel tardo Impero. La scomparsa definitiva dell’Altilia romana va datata all’età delle invasioni barbariche alle quali, peraltro, va attribuita la causa della morte. Una timida ripresa si è cominciata a registrare con la ripresa contestuale della transumanza nel XIV-XV secolo per via del tratturo Pescasseroli-Candela che l’attraversa.

Vi è stato, perciò, un millennio di totale oblio. Ad ogni modo, non siamo di fronte ad una rinascita vera e propria in quanto dal rango di città Altilia scende a quello di villaggio. La sua storia la si può sintetizzare come una parabola che dalla nascita passando per la formazione embrionale dell’abitato giunge al concepimento dell’assetto urbanistico cui segue il declino che si conclude con il decesso. Vi è stato un intervento di rianimazione nella cosiddetta età di mezzo e, però, è stato tardivo, esso non è riuscito a risvegliare la città divenuta nel frattempo fantasma, una ghost town come se ne vedono molte oggi in giro per il mondo.

La minima ripresa era di carattere spontaneo, lo sfruttamento del patrimonio edilizio ancora recuperabile, non è stato guidato dall’autorità politica che avrebbe avuto interesse a farsi parte attiva nel ripristino di questo antichissimo luogo di scambio a servizio della transumanza; l’erario ne avrebbe tratto consistenti entrate incassando l’obolo da pagarsi da parte degli armentieri per la partecipazione della fiera che li ab imis si svolgeva in occasione del transito delle greggi.

Sebbene in rovina l’immagine del municipium si è conservata, in certi tratti sostanzialmente inalterata, prendi il decumano, un percorso viario che non poteva scomparire a pena di interrompere il flusso della transumanza essendo il segmento urbano del tratturo il quale si infila sotto Porta Boiano e si trasforma in una via cittadina, appunto il decumano e riappare quando esce da Porta Benevento. Una terminazione dell’esistenza tutto sommato abbastanza repentina la quale non ha dato alla città tempo di invecchiare, di consumarsi, un po’ quello che è successo ai monumenti della civiltà Maja. Deve essere stato merito di qualche divinità pagana che ha avuto a cuore Altilia se è vero il detto «muor giovane chi è caro agli dei».

Francesco Manfredi Selvaggi633 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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