Un pezzo di Albania in Molise

di Francesco Manfredi-Selvaggi

Si tratta di un’area ristretta, per secoli isolata dal resto della regione dal punto di vista culturale. È una specie di isola che ha mantenuto le proprie tradizioni, le proprie radici a cominciare dalla lingua (ph. Il tifo a Ururi per la corsa dei carri)

Ci troviamo in una sorta di «isola», almeno dal punto di vista culturale, nonostante la continuità territoriale con il resto del Basso Molise. È infatti la zona in cui si insediarono popolazioni albanesi nel XV secolo, un gruppo etnico che ancora conserva della sua cultura originaria la lingua. Essa è tutt’oggi parlata dagli abitanti di Portocannone, Ururi e Campomarino, oltre che da quelli di Montercilfone, un paese, però, staccato dai primi situato com’è sull’altra sponda del Biferno, ed essa è l’elemento più riconoscibile dell’origine di questo popolo.

Infatti, non si può dire la stessa cosa della “corsa dei carri” la quale, seppure nella forma di sfilata dei carri, peraltro molto pittoreschi, si svolge nella vicina Larino che non ha subito influenze albanesi, in occasione della festa di San Pardo. A Portocannone la tradizione vuole che coloro che erano fuggiti dall’Albania fondarono questo centro nel posto dove il carro che stava trasportando l’immagine della Madonna di Costantinopoli (molto venerata da quella parte dell’Adriatico) si fermò; ogni lunedì di Pentecoste in ricordo di tale avvenimento si organizza la corsa dei carri trainati da buoi, 2 per ciascuno, e il carro che vince ha l’onore di portare durante la processione l’icona di questa Madonna, in definitiva una sorta di rito fondativo.

La vera storia della nascita dell’insediamento forse non è questa, bensì piuttosto quella che il vescovo di Termoli per ripopolare terre all’epoca disabitate assegnò ai fuggiaschi dalla Croazia e dall’Albania, ormai sotto la dominazione turca, territori posti sui versanti opposti della vallata del Biferno, quasi a voler tenere distinte, salvo Montecilfone, le due comunità. La decisione dell’autorità ecclesiastica è stata presa in conseguenza del terremoto del 1456 il quale provocò la desertificazione dell’area; gli albanesi giunsero 10 anni dopo e ricostruirono l’agglomerato il quale doveva esistere nel 1175 come attesta un documento di quel periodo.

La struttura urbanistica di Portocannone segue uno schema a scacchiera, con la maglia disposta in direzione nord-sud ed est-ovest, tipico dei nuclei di nuova fondazione. A proposito di eventi tellurici è da dire che, nonostante la scossa che distrusse Ururi nel 1962, il nostro ambito è stato classificato sismico solo a seguito del terremoto di S. Giuliano di Puglia del 2002; poiché la sismicità è stabilita in base alla probabilità di accadimento di un movimento tellurico e, dunque, in relazione a precedenti scosse è da ritenere che si avevano poche notizie sui terremoti verificatisi in questo comprensorio.

Ciò sta a dimostrare la scarsa conoscenza di quanto avveniva qui, dovuta a quella separatezza dal contesto regionale della parte di Molise comprendente i comuni albanesi. All’inizio si è parlato di isola, adesso aggiungiamo il termine isolamento che si avverte in questi luoghi il quale se non è fisico è stato in passato etnico. Tornando alla corsa dei carri e rimanendo nel tema del sentirsi isolati si riscontra che essa è effettuata sul tracciato tratturale che lega S. Martino in Pensilis a Portocannone: il tratturo, siamo sul L’Aquila-Foggia, ha rappresentato nella storia una grande direttrice di comunicazione, ma non deve essere bastato a impedire l’isolamento.

Se non c’è riuscito il tratturo non ne è stata capace neanche la rete stradale potenziata nell’ultimo secolo, i cui assi principali, del resto, sono esterni a questo ambito, in particolare la linea ferroviaria e le nuove strade di collegamento tra il settentrione e il meridione d’Italia privilegiando la striscia litoranea. Possiamo giungere ad una conclusione: è l’isolamento, insieme alla volontà degli esuli di rimanere uniti, a rafforzare l’effetto «isola» con l’accentuarsi dell’attaccamento alle proprie tradizioni che la gente del posto si è portato dietro emigrando dalla patria natia.

I circondari, sia quello albanese, così come quello slavo rappresentano delle enclave, anche se nello stesso tempo essi sono sentiti come ponti verso le nazioni da cui ci separa l’Adriatico, specie nell’epoca odierna nella quale c’è una forte spinta a costruire legami con gli Stati dell’Europa orientale (vedi l’Euroregione Adriatica di cui il Molise è capofila). Qualche rapporto ci deve essere sempre stato perché se le persone coinvolte nell’esodo si sono spinte molto addentro al territorio molisano, fino a Schiavi d’Abruzzo («slavi»), gli unici borghi nei quali è sopravvissuta la loro presenza sono quelli del Basso Molise, probabilmente perché in linea d’aria più vicini alle madrepatrie.

Solo per curiosità si ricorda l’entusiasmo con il quale venne salutata da queste parti l’incoronazione di Vittorio Emanuele III a re d’Italia e d’Albania. Un aspetto che finora non si è sottolineato è che a confermare l’impressione di isola c’è il fatto che i centri abitati di Campomarino, Portocannone e S. Martino in Pensilis, il quale pur non essendovi testimonianze in proposito deve aver avuto influenze albanesi, sono disposti a catena sul medesimo rilievo collinare avente una conformazione allungata, senza, cioè, separazioni orografiche.

In termini diversi si avverte un’unità dovuta all’assenza di elementi morfologici di divisione i quali, invece, sono fattori indispensabili altrove nella scelta del sito di edificazione degli aggregati insediativi in quanto i corsi d’acqua o le impervie valli favoriscono la difesa degli abitati disposti, di solito, su colli isolati. Le sensazioni che si provano davanti ad un quadro paesaggistico non sono sempre nette e lo confermano le impressioni che si hanno di fronte a questo settore del paesaggio molisano che non sono esclusivamente quelle di sentirsi in un luogo appartato: per quello che si chiama l’osservatore interno in effetti è così, mentre l’osservatore esterno il quale ha uno sguardo più esteso legge un’integrazione stringente tra l’area in esame e la rimanente parte del territorio molisano.

Essa rappresenta una fascia di mediazione tra il Molise collinare e, piuttosto che la pianura costiera la quale si può dire addirittura inesistente tanto è stretta, i terreni piatti del Tavoliere. Ad una scala ancora maggiore che abbraccia le tre regioni contermini la nostra zona è il terminale della degradazione altimetrica con andamento longitudinale che porta dall’Appennino abruzzese alla piana pugliese, rimanendo meno significativa il suo ruolo nella ideale sezione che attraversa la Penisola trasversalmente congiungente il massiccio del Matese all’Adriatico.

 

Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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