Case a molla, si espandono e si ritraggono

di Francesco Manfredi-Selvaggi

Social housing e cohousing sono quasi sinonimi, ciò che li distingue è il maggior accento che pone il primo sulla composizione sociale dei destinatari delle proposte di alloggi condivisi. Un elemento di grande rilievo che hanno in comune è la flessibilità dell’abitazione che può ingrandirsi oppure ridursi nel tempo a seconda delle esigenze della famiglia. Di queste cose si è interessato l’ing. Modestino Vespa, scomparso precocemente, nella sua tesi di laurea su Pesche (La riproduzione di una tavola della tesi)

Il cohousing e il social housing hanno molto in comune. Ambedue sono imperniati sulla progettazione di abitazioni condivise da più persone, la differenza è che mentre il primo non specifica il tipo di occupanti delle medesime il secondo è rivolto a componenti della società con particolari problematiche, economiche, fisiche, lavorative, ecc. Entrambi, comunque, sono indirizzati a individui che accettano di buon grado di vivere in comune. Tutt’e due, ultima specificazione, si adattano bene alle strutture edilizie presenti nei borghi antichi, specie a quelle aggregate fra loro. Di seguito vediamo le peculiarità del social housing, in sigla sh.

Una considerazione preliminare è quella relativa al mutamento in corso del fabbisogno abitativo. Nella nostra regione ben il 70% delle abitazioni di proprietà, tendenza questa del possesso della casa in cui si abita che oggi si va modificando. Le ragioni di tale trasformazione in atto nelle preferenze degli italiani nel titolo di godimento dell’alloggio i quali adesso cominciano ad accettare di vivere in affitto va cercata nella nuova configurazione del mercato del lavoro. L’occupazione sta diventando sempre più precaria e, richiede una disponibilità del lavoratore a spostare con una certa frequenza la residenza.

La domanda di case deve seguire l’offerta di impiego, non siamo tuttora qui da noi in grado di ribaltare a nostro favore tale rapporto. È evidente che ci stiamo riferendo prevalentemente alle classi di età giovanili e non a coloro che sono in età senile. Gli anziani sono cresciuti, o meglio invecchiati, con l’idea di dover essere proprietari di casa, quasi fosse un fattore identitario, ma sulle esigenze abitative delle persone in età, della “terza età”, parleremo dopo. Sicuramente ciò che si va affermando è la predisposizione verso gli alloggi piccoli, minimi per minimizzare i costi; ciò li rende alla portata delle tasche di chi ha un reddito non elevato, di chi è al primo impiego per cui non ha tanti soldi da parte, per chi è precario per cui ha difficoltà ad accedere ai prestiti bancari.

La riduzione della taglia dell’appartamento nel sh così come nel ch viene compensato da una serie di spazi ad esso collegati da fruire con i “vicini di casa”, destinati a living, ripostiglio, lavanderia e così via. Caratterizzano, in maniera congiunta, il sh e il ch l’utilizzazione in maniera congiunta di parte della superficie della casa oltre alla flessibilità dell’alloggio. Per quanto riguarda quest’ultima vi sono diverse esperienze già effettuate. Negli Stati Uniti vi è la sperimentazione di “quartini”, contrazione di quartierini, sovradimensionati, sovrabbondanti rispetto alle necessità del momento della famiglia; l’eccedenza spaziale viene lasciata non rifinita fin quando, mettiamo per l’aumento dei figli della coppia, essa viene integrata nell’alloggio diventando una ulteriore stanza da letto.

Una ricetta del genere può essere facilmente applicata in un isolato dell’insediamento storico in presenza di immobili abbandonati confinanti con quello che fa da perno al progetto di sh, immaginificamente quest’ultimo un “pieno”, pieno di abitatori, il quale progressivamente si estende inglobando i “vuoti”, i vani dell’edificio rimasto vuoto che lo fronteggia. L’alternativa al prolungamento della casa evidentemente c’è ed è razionale e, però, appare come un comportamento liquidatorio, quello di traslocare in un alloggio più capiente.

È possibile anche il processo inverso nel qual caso il percorso sarebbe all’incontrario: riducendosi il numero dei membri del nucleo famigliare, ad esempio perché la prole va via alcune camere si rivelano superflue per cui potrebbero essere annesse all’abitazione adiacente in caso di bisogno. Le case si dovrebbero poter sdoppiare, in un monolocale e un bi o tri-locale per esempio o altre soluzioni compatibili con le dimensioni della stessa. È utile ricordare che non siamo di fronte con il sh a novità assolute, le prime avvisaglie di modalità di accrescimento della casa risalgono al secolo scorso.

A quel tempo le addizioni volumetriche ai volumi esistenti consistevano in piccolissimi corpi di fabbrica collocati sui balconi adibiti a servizi igienici, ricovero della caldaia dell’impianto di riscaldamento, armadio-dispensa fino al retrocucina. Siamo di fronte oltre che a spazi accessori a volte anche a incrementi della superficie abitabile con la realizzazione di verande pensili. La giustapposizione di manufatti, non importa se stabili o mobili, alla facciata turba l’aspetto estetico della costruzione e quindi è qualcosa impossibile da fare nei centri storici; oggi che è cresciuta la sensibilità ambientale si impone la loro eliminazione.

Un’altra azione in verità meno consueta, anche se più organica cui si è proceduto in passato è quella della costruzione di ballatoi accessibili da scale esterne all’organismo edilizio i quali fungono da elementi distributivi degli ambienti interni, una sorta di corridoi scoperti a fianco al fabbricato; ovviamente è una risoluzione al problema della teoria di stanze passanti, l’una nell’altra, tipica delle architetture tradizionali applicabile solamente alle case unifamiliari. Siamo infine all’annunciata questione della situazione alloggiativa delle persone in anni la quale, sinteticamente, è legittimo ripartire in due distinte questioni, da una parte la convivenza forzata con la badante garantendo all’anziano un certo grado di privacy e, dall’altra parte il superamento delle barriere architettoniche, obiettivo che ha superiori difficoltà di essere raggiunto negli stabili datati in cui gli alloggi si articolano su più livelli.

È un particolare caso quello della casa, non è il femminile di caso, ma non è opportuno scherzare perché è una questione di grande rilevanza sociale, degli anziani ovvero del segmento della popolazione più fragile, meritevole di più attenzione; per essi il modello residenziale del social housing sembra quello maggiormente indicato, stando anche al termine social il quale significa socialità, quella di cui gli anziani hanno tanto bisogno.

Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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