Il Verrino, non solo acqua

di Francesco Manfredi-Selvaggi

Lungo questo corpo idrico vi sono diversi elementi di interesse culturale. Le ramere ricollegano l’ambiente fluviale con quello urbano in cui si trovano le botteghe dei ramai (Ph. M. Martusciello-Cascate del Verrino)

Questo fiume presenta tanti elementi di grande interesse paesaggistico, dei quali ve n’è uno davvero particolare, non riscontrabile negli altri corsi d’acqua molisani. Esso è costituito dalle «ramere» le quali non sono significative solo perché testimonianze di archeologia industriale, ma pure in quanto “segni” rappresentativi di una civiltà, ormai scomparsa. Per tale risvolto, cioè per la capacità delle cosiddette ramere di rievocare una particolare organizzazione economica, sociale e territoriale esse costituiscono delle “emergenze” forti del paesaggio.

In questi stabilimenti, sono 2, avveniva la trasformazione del rame in lamine attraverso la battitura, le quali poi nelle botteghe presenti nel centro abitato venivano sagomate in modo da formare oggetti. Era talmente importante questo comparto che gli agnonesi erano identificati nel resto della regione con il nomignolo di «callarari», da callara, caldaia, uno dei prodotti più diffusi presenti in ogni casa. L’economia legata al rame è una faccenda singolare tanto da non consentire equiparazione con le altre attività economiche presenti nel panorama regionale.

La lavorazione del rame impone la formazione di una filiera in cui vengono coinvolti gli operatori delle varie fasi delle quali si compone il processo produttivo che porta alla fabbricazione dei manufatti cui succede, quale passaggio obbligatorio, quello della vendita che, perciò, è un passaggio, il finale, della catena. In definitiva, è un sistema che richiede il coordinamento dei diversi momenti il quale può essere assunto da una figura specifica, una sorta di imprenditore «capitalista» ante litteram, oppure ad acquistare funzioni, in qualche modo, direttive è una delle persone che partecipa a questo articolato ingranaggio, il proprietario della ramera che, di norma, coincide con colui che compra la materia prima, l’artigiano, il mercante.

Si vuole sottolineare l’eccezionalità del settore in esame rispetto al resto dei rami economici presenti nel Molise, per il suo essere legato all’intervento di capitale commerciale, quindi di chi investe senza che vi sia il preventivo ordinativo dei beni prodotti. È quanto caratterizza l’Età Mercantilistica, il periodo della storia moderna che si fa precedere nella manualistica scolastica al Capitalismo, del quale ha in sé i prodromi per la rilevanza che nelle attività ha l’investimento finanziario. Durante il Mercantilismo e a seguito dello stesso si sviluppano, in tutta Europa, le città ed Agnone ha ben titolo, supportato da riconoscimento regio nel XV secolo, di essere considerata una autentica entità urbana.

La ramera rimanda a tutto ciò ed essa, anzi, contiene segnali dell’affacciarsi del capitalismo che qui, però, non si svilupperà: nella ramera Cerimele vi è l’alloggio per i salariati, contadini, poiché la paleo industria si insedia nelle campagne, vicino ai corsi d’acqua che forniscono la forza motrice (le ramere sfruttano l’energia idraulica), che vi prestano il proprio lavoro non continuativamente. In Agnone l’artigiano ramaro lavora nelle botteghe che sono annesse all’abitazione, peraltro molto caratteristiche, e tale fatto non va confuso con l’industria a domicilio, questa sì un modello di produzione di tipo capitalistico.

Se sono lontani dalla logica del capitalismo i laboratori artigiani agnonesi non possono però ritenersi un retaggio medioevale per l’assenza di una corporazione, tipica forma associativa di quell’epoca, nonostante la concentrazione di botteghe nel nostro centro (nello Statuto municipale del 1400 si parla unicamente della Corporazione degli orafi). Una differente componente del patrimonio culturale della valle del Verrino è la cappella rurale di S. Lucia, altrettanto carica di significato delle ramere, la quale si colloca in un punto simbolico trovandosi quasi al centro dei 22 chilometri dell’asta fluviale.

Inoltre, tale luogo è l’inizio del tratto in cui il Verrino costituisce il confine tra territori comunali, da un lato Poggio Sannita e dall’altro Castelverrino e Pietrabbondante; per quanto riguarda i primi due il corso d’acqua in questione è il pezzo del perimetro amministrativo più lungo. Quanto appena detto non può essere privo di significato cioè che quando esso corre all’altezza del capoluogo altomolisano il cui ambito si estende su ambedue i lati della valletta questo fiume non rappresenta una linea di divisione, mentre successivamente diventa valicabile con difficoltà e, nel medesimo tempo, la zona perifluviale è meno ospitale.

L’attraversamento era garantito dal ponte Duca Petra, la famiglia feudale di Caccavone del periodo vicereale. La lunghezza dell’affaccio di Poggio e di Castelverrino, che già dal nome rivela il rapporto stretto del comune con il corso idrico, è un indizio del legame, comunque, con il Verrino. S. Lucia è da ritenere che stia lì perché il posto è un momento ancora propizio all’insediamento umano e i monaci vi fondarono nell’alto medioevo una piccola badia per colonizzare l’area, con annessa chiesetta rifatta nel ‘700.

Qui nel Verrino confluisce il Vallone Zelluso le cui acque erano considerate, lo stesso Antonio Cardarelli lo sosteneva, utili per la cura delle malattie della pelle (la «zella» ne è una); in più, a sottolineare la valenza del sito, questa volta sotto l’aspetto semantico, vi è in prossimità dell’edificio di culto un piccolo casino di campagna posseduto dal dott. Cremonese, lo scopritore della Tavola Osca. Non è casuale, di certo, la vicinanza con ritrovamenti archeologici nell’intorno (a Masseria Cupella, a Masseria Vecchiarelli, ecc,), allocati, poi, nella biblioteca comunale che attestano una lunga frequentazione antropica.

Finora abbiamo parlato di risorse di natura culturale, ma il fiume è appetibile, oltre che per ragioni intellettuali, pure per questioni meramente ricreative (senza trascurare il sentimento del sacro evocato dalla chiesa di S. Lucia): Custodina Carlomagno in un suo libro dice che «gli aragonesi amano bagnarsi nelle sue acque», specie nella località «smeraldo» chiamata così “per il riflesso del verde degli alberi” sulla superficie del fiume. Il volume è del 1984, anno in cui hanno inizio i poderosi lavori di arginatura del’alveo, la quale ha alterato il paesaggio fluviale; non hanno, comunque, tali opere compromesso l’ecosistema tanto che da S. Lucia in giù il Verrino è stato successivamente riconosciuto Sito di Interesse Comunitario per le sue pregevoli qualità naturalistiche.

Francesco Manfredi Selvaggi637 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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