Andare dritto, poi svoltare a sinistra
di Francesco Manfredi-Selvaggi
Sono le indicazioni che segue il Volturno nella sua parte iniziale. Ne descriviamo le caratteristiche essenziali di tipo geografico, messe in relazione con l’assetto insediativo storico (Ph. M. Martusciello-Le cascate del Volturno in località Cartiera)
Il Volturno è un fiume strano o, almeno, diverso dagli altri principali corsi d’acqua molisani. Ciò sia perché è l’unico che si sversa nel Tirreno sia perché per un tratto, quello iniziale, esso corre parallelamente all’Appennino, non in senso ortogonale come invece fanno il Biferno, il Trigno e il Fortore (che nel Molise è identificabile con il suo affluente Tappino). Camminare nella medesima direzione della catena appenninica della quale le Mainarde sono parte significa anche seguire l’andamento della linea costiera, in questo caso come si è detto è quella tirrenica, su cui andrà a convergere successivamente: tali cambi di direzione sono una caratteristica precipua del corpo idrico in oggetto che non è presente nel resto delle aste maggiori della rete idrografica regionale.
Così come muta la direttrice alla stessa maniera c’è un cambiamento della velocità e c’è una coincidenza tra la trasformazione del flusso dell’acqua e quella del, per così dire, verso di marcia del Volturno. Da località Taverna, dopo aver costeggiato il pianoro dove sorge l’abbazia di S. Vincenzo, nel punto in cui incontra il torrente Rio proveniente dalla Madonna dell’Assunta, esso scende rapido a valle svolgendosi secondo una linea retta fino al Ponte Sbiego, «sbiego» perché deve tener conto dell’innesto nel Volturno del Rio Acquoso in territorio di Colli al Volturno; va avanti obliquo per un po’ fino al punto, siamo a Macchia d’Isernia, in cui il Volturno si congiunge, letteralmente, con l’affluente più significativo della provincia di Isernia che è il Vandra.
Le acque si sono ormai pacate avendo raggiunto la pianura, per preservare la quale dalle inondazioni è stato realizzato, siamo sempre a Macchia, il bacino di laminazione di Ripaspaccata. C’è un’ulteriore osservazione da fare in relazione al primo pezzo del Volturno ed è che esso circuita il blocco di travertino della piana di S. Vincenzo; cioè esso la delimita perimetralmente su tre dei quattro lati a cominciare dalle sorgenti di Capo Volturno. Non è di poco conto mettere l’attenzione su tale aspetto per evidenziare la capacità di tale formazione geologica, scarsamente erodibile, di condizionare il percorso del fiume il quale, dunque, si deve mettere a lato.
Il Volturno, sempre nella sua fase giovanile, si pone ai margini del banco roccioso di travertino, da un lato, e, dall’altro è delimitato da quel complesso arenaceo-argilloso (è caratteristica la sua successione degli strati dei due materiali quando, ma succede altrove, emerge alla vista) sufficientemente compatto denominato “flysh di Agnone”. In definitiva esso è costretto in un alveo ben definito, cosa che contribuisce alla sua rettilineità, all’impossibilità di divagazioni. L’essere racchiuso tra questi due ammassi coerenti fa sì che la forza della corrente, non potendo scalzare le sponde, porti ad un approfondimento del letto fluviale.
Il corso d’acqua è abbastanza inciso, per cui la strada che passa accanto sta ad una quota superiore, tanto da rendere scarsamente percepibile l’ambiente fluviale. Tale arteria, a tutt’oggi classificata stradale, è stata, specie in passato, un asse di comunicazione fondamentale per collegare l’Abruzzo con Napoli, la capitale del regno. La valle del Volturno, infatti, prima della realizzazione del ponte dei 25 archi che permette di raggiungere il più agevole valico di Rionero Sannitico, era la naturale, anzi, l’unica via di penetrazione verso le province abruzzesi che consentiva lo scavalcamento dei rilievi appenninici mediante le rampe di S. Francesco, meno comode del passo di Rionero.
Una valle che è stretta e che si fa ampia solo dopo Montaquila e che nel suo segmento più alto è ritenuta essere una linea di frattura tettonica. Al di là dei risvolti sulla sismicità della zona, colpita nella sua storia da diversi terremoti, dal punto di vista geografico la vallata del Volturno rappresenta una barriera: qui terminava la Terra di Lavoro e iniziava il Contado di Molise. La questione stradale non è di poco conto neanche nella scelta della ubicazione dei monasteri. In verità, presso i passi montani vi erano gli eremi che servivano anche per dare ospitalità ai viandanti, tipo quello di S. Michele a Foce che presidia l’itinerario per il versante laziale, ma la presenza religiosa, comunque si manifesti, assicura assistenza alle persone in cammino e garantisce tranquillità al traffico di merci (magari ricavandoci qualche utile).
L’abbazia di S. Vincenzo al Volturno doveva esercitare un controllo oltre che sugli spostamenti sull’insieme delle attività che si svolgevano in questo comprensorio, a cominciare da quelle agricole che essa stessa aveva promosso. I monaci dell’ordine benedettino si sono sempre impegnati nella messa a coltura di superfici agricole che con il disfacimento dell’impero romano erano in stato di abbandono e ciò richiedeva la bonifica di terreni ormai impaludati. Un grosso sforzo dovette essere profuso per la irregimentazione delle acque e ciò avvenne sia per favorire la coltivazione dei campi da parte dei coloni sia per sfruttare l’energia idraulica, forza motrice di due mulini posizionati, come attestano le fonti, ai margini del pianoro dove ha sede il centro monastico, alimentati da acque derivate tramite canali dal Volturno che scorre nel margine opposto, e della cartiera, la quale forse si collega allo sforzo profuso dagli abati nel tramandare gli antichi testi tramite la loro riscrittura, che altrimenti, in quei secoli «bui», si sarebbero persi.
In definitiva, quella dei benedettini a S. Vincenzo al Volturno la si può definire, in qualche modo, anche una civiltà «idraulica» e quello che esercita il monastero è una sorta di potere «idraulico» al quale è assoggettata la popolazione, si pensi alla macinazione del grano. Il tema dell’acqua come forza motrice rimarrà il filo conduttore per la lettura delle trasformazioni che hanno interessato l’area nell’ultimo secolo quando la ricchezza idrica diventa l’elemento centrale nell’organizzazione territoriale: si veda il poderoso complesso delle centrali idroelettriche che condiziona in maniera così forte il contesto paesaggistico conferendogli una particolare bellezza con la creazione del lago di S. Vincenzo.
Francesco Manfredi Selvaggi637 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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