«Intanto che la vita» di Carla De Benedictis

La nuova raccolta poetica per peQuod Editore

di Giovanni Petta

Ha ancora senso la poesia nel nuovo millennio? A cosa serve? Che cos’è? «È un estenuante tentativo di fare l’amore – si legge nella prefazione del nuovo libro di Carla De Benedictis -, di afferrare l’inafferrabile eppur necessario legame, il sentimento, linfa che scorre tra le radici e i rami affinché sia possibile la vita».

L’autrice sa cosa deve fare. Ha ben chiare le idee e gli obiettivi del suo lavoro: la poesia deve rispondere alle domande ontologiche, quelle che l’uomo si pone da quando ha avuto consapevolezza di sé. E deve, nello stesso tempo nascere «dall’equilibrio tra lavoro e libertà, (…) figlia di una relazione tra l’idea che nasce spontanea prendendo lezioni dalla vita e l’impegno di non perdere la strada verso il destino».

Così, la raccolta di poesie dal titolo «Intanto che la vita», uscita per peQuod qualche mese fa, si struttura in maniera molto precisa – «lavoro e libertà» – in due parti («come le due metà di un cuore»): ventuno sonetti che hanno le lettere dell’alfabeto coincidenti con la prima lettera del titolo di ognuno di essi e, nella seconda parte, ventisette composizioni, ognuna di sette quartine, che hanno la prima lettera del titolo coincidente con le lettere di una parola endecasillaba, “Sovramagnificentissimamente”.

Una struttura, come si diceva, immaginata e disegnata a priori («lavoro») che nulla toglie e nulla impedisce al contenuto di libertà esplicitato dai versi che si dispiegano uno dopo l’altro, spesso collegati in enjambement, per dare forma plastica a pensieri e sentimenti.

L’endecasillabo la fa da padrone. Ed è davvero una gioia sentir cantare il re dei versi, ancora con tanto vigore ed efficacia, ancora con tanta bellezza luminosa, nella poesia del terzo millennio.

Ma la fa da padrone anche la parola «amore», utilizzata per ben sessantotto volte, da sola (39) o in tutte le sue varianti nominali e verbali (amante, amato, ti amo, amare…). E in questo tener conto del sentimento che è re dei sentimenti (parallelamente all’endecasillabo che è il re dei versi), si coglie la realtà in ogni forma: da quella “Effimera” di ogni concretezza desiderata e intangibile (“Son parte delle cose che non durano / come i raggi di sole e le campanule / silenti d’innocenza mentre urlano / alla luce: la colpa è delle favole”), a quella reale di ogni consapevolezza vera (“Lui tornerà puntuale a quei rintocchi / che suoneranno in assenza d’amore / perché l’amore è l’unica barriera / resistente al passaggio delle ore”).

Il sentimento dell’amore viene sviscerato in forme sempre nuove partendo da ciò che è perennemente stato nella tradizione poetica e nella evoluzione del genere umano. Le sue rappresentazioni, anche quando si rifanno a immagini della poesia più alta, risultano sempre rinnovate dalla contemporaneità e spesso sono densamente penetrate da un’aria di malinconia o dalla convinzione ferma della necessità della sua stessa esistenza: “Senza dirlo, il mio nome pronunciavi / affacciato sull’orlo dell’abisso / e a un tratto ti sei accorto che volavi // abbandonandoti all’alba del mondo / perché io esisto se tieni le mie mani / perpetuando d’amore il girotondo”.

Nella sua ricerca di «risposte oneste», quelle che si pretendono dai poeti e che i poeti riescono ad avere, quando esistono,  prima degli altri essere umani, Carla De Benedictis utilizza lo strumento dell’amore per aprire spiragli di conoscenza ulteriori, nel tentativo di vincere la solitudine a cui l’uomo è condannato. In “Ognuno è solo” – composizione che tiene insieme la sera di Quasimodo e “La cura” di Battiato («(…) e mentre tu mi ami io non invecchio») – l’autrice prova a “rispondere onestamente” e indica una strada: “Ma è presto sera se non vigiliamo / sul bambino che cresce senza dirlo / sulla pelle che cambia mano a mano / che il cuore grida e tu non vuoi sentirlo”.

E nell’acquietarsi finale della raccolta, dopo aver trovato amore in ogni respiro del mondo, c’è ancora il tempo lucido e puntuale per trovare un perché al nostro esistere, allo stare in questo mondo, punti minuscoli di un universo infinito: «Siamo coriandoli e dobbiam sfuggire / a chi riordina dopo il Carnevale: / con l’aiuto del vento e le sue spire / sopravviviamo, anche se fa male».

 

Giovanni Petta76 Posts

È nato nel 1965 in Molise. Ha pubblicato le raccolte poetiche «Sguardi» (1987), «Millennio a venire» (1998) e «A» (2016); i romanzi «Acqua» (2017), «Cinque» (2017) e «Terra» (2021) ; il saggio giornalistico «L'Italia delle regioni, il Molise dei ricorsi» (2001) e, con lo pseudonimo di Rossano Turzo, «TurzoTen« (2011) e «TurzoTime» (2016). Allievo di Mogol, ha inciso «Non crescere mai» (1993), «Trema terra trema cuore» (single, 2003), «Il bivio di Sessano» (2012). Ha diretto le testate «Piazzaregione» e «L'interruttore». Ha coordinato l'inserto molisano de «Il Tempo».

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