S. Massimo, un centro collinare al centro tra pianura e montagna
di Francesco Manfredi-Selvaggi
Qui i vi è una pluralità di paesaggi che pur estremamente diversi fra di loro si combinano insieme in modo armonioso (ph. Cartolina d’epoca)
San Massimo ha un territorio dalla forma rettangolare, moltissimo allungata. I lati lunghi sono quelli che vanno trasversalmente alla catena appenninica e non seguono, se non per brevi tratti, corsi d’acqua, salvo se non si considera il Fosso della Neve, una profonda e invalicabile incisione valliva che parte dal crinale del monte chiamato delle Tre Finestre poiché affacciato sulla valle, un corpo idrico. Per quanto riguarda i lati corti vediamo che nel piano il limite è invece rappresentato da un fiume, il Rio Bottone, mentre a monte è vano cercare degli elementi di discontinuità in quanto il Matese si presenta come un fatto unitario, almeno nella sua zona centrale.
Questa striscia di territorio di grande lunghezza ed estremamente stretta è stata disegnata per comprendere un pò di montagna, un pò di collina e un pò di pianura per consentire alla comunità che vi abita l’integrazione delle risorse presenti nelle varie fasce altimetriche, si pensi all’allevamento che, a seconda delle stagioni, si pratica in quota o nel fondovalle. Ciò che colpisce, dal punto di vista percettivo, è innanzitutto la chiarezza delle vedute potendosi distinguere immediatamente le diverse componenti morfologiche di tale contesto paesaggistico e cioè quella montana, quella collinare e quella pianeggiante; nonostante la sua articolazione il paesaggio matesino possiede una sicura e riconoscibile identità che ne fa uno dei più definiti tra quelli presenti nel Molise.
Ancora, è in qualche modo sorprendente il notevolissimo dislivello, circa 2.000 metri, che intercorre tra il piatto ambito che costituisce la zona bassa del comune e la sommità (la cima di m. Miletto, che è la più alta, appartiene, però, a Roccamandolfi); non vi possono non essere conseguenze sul sistema ambientale il quale varia con il crescere dell’altitudine necessariamente. Sono, è ovvio, distinzioni grossolane quelle proposte fino adesso ed esse devono essere affinate. Cominciando dal comprensorio montagnoso vediamo che qui si succedono, se si parte da sopra, creste (Colle Bellavista, Colle del Monaco, Cima Croce, Colle Tamburro) con, addirittura, le tracce di un ghiacciaio dell’era quaternaria, altopiani prativi e superfici boscate che si estendono con continuità, anche per merito dei rimboschimenti di conifere effettuati negli anni 60, sul versante del massiccio montuoso con eccezione delle località Pianelle e Lontri le quali sono prative.
Boschi occupano pure le pendici e qui si segnalano i castagneti. I terreni boscosi sono circa la metà del territorio di S. Massimo e per la metà ad alto fusto, le faggete montane. Il Matese è il fondale onnipresente alla vista e chiude l’orizzonte verso meridione: l’esposizione, dunque, è a nord la più sfavorevole (non per la stazione di sport invernali!) per il minor soleggiamento. Le coltivazioni, così, non sono favorite, ma ugualmente si sono sviluppate nel XIX secolo consistenti aziende agricole, gestite con contratti di mezzadria. Le principali costituiscono con i loro imponenti fabbricati dei veri e propri fulcri visivi nei panorami che si aprono dal nucleo abitato; due stanno nei suoi opposti fianchi, sui primi rilievi e precisamente quello del Masomartino e quello di S. Maria delle Fratte, l’una con gli appezzamenti che prendono il sole proveniente da ovest, l’altra da est o, piuttosto, da nord-ovest e da nord-est.
Peggiore è la situazione climatica della terza di queste tenute signorili in quanto è situata a 500 metri s.l.m. dove al mattino vi è sempre nebbia; l’azione che si dovette fare per ricondurre queste terre all’agricoltura fu di certo consistente per far defluire le acque portate dalle piene del torrente Callora. L’essere soggette ad inondazioni in precedenza dovette determinare la destinazione a pascoli di tale vasta area, complementari per mezzo dell’alpeggio con quelli dei pianori matesini. La monticazione ha inciso pure nelle tradizioni popolari tanto che le principali festività tradizionali coincidono con la partenza e il ritorno degli animali dal monte. Il 24 giugno, la festa di S. Giovanni dà inizio al trasferimento del bestiame che avveniva dopo che si erano concluse le operazioni della mietitura e della fienagione, liberando gli uomini dal lavoro nei campi; i festeggiamenti consistono in una processione per portare le statue dei santi protettori da una cappella rurale dedicata a S. Maria delle Fratte posta a 4 chilometri dal paese alla chiesa madre.
La seconda domenica di settembre, con la conclusione dell’alpeggio, sempre in corteo le statue compiono il percorso inverso. Lungo questo tragitto vi sono vari “segni” della religiosità distribuiti nell’agro quasi a protezione dei campi coltivati, le quali sono le chiesette di S. Rocco, di S. Filomena e di S. Michele. Il senso del divino pervade l’intero territorio, a cominciare da quello più elevato sottolineato dalla croce in ferro situata sopra cima, appunto, Croce. Toponimi ci ricordano scomparse presenze religiose come il monastero di S. Nicola su un valico del massiccio montuoso e Canonica, una frazione che rifugge la piattezza del suolo alluvionabile.
L’insediamento sparso molto diffuso specie a formare borgate (con ognuna che prende il nome da un cognome), preferisce le alture, mentre la pianura, oltre all’unità aziendale di cui si è detto, è interessata dal passaggio del tratturo, fatto che conferma la vocazione pascoliva di questa sezione territoriale. L’acqua non è solo un pericolo, ma anche un’opportunità sfruttata per la produzione di energia elettrica, con la conca di Campitello trasformata in bacino di carico della centrale di S. Massimo, e per la molitura (il mulino maggiore stava ai piedi di Colle Nero). L’acqua Zolfa è una sorgente che ha questa denominazione in quanto vi è una mineralizzazione solfurea. In definitiva quello di S. Massimo è un distretto di beni agricoli, culturali e naturali assai diversificati.
Un filo conduttore per la loro lettura, lo si è visto, è l’orografia la quale a sua volta è, più che in altri luoghi, strettamente dipendente dalla formazione geologica con la montagna dal substrato calcareo circondata da suoli arenaceo-argillosi al suo perimetro, la fascia collinare, e con il piano composto da depositi fluviali. Dalla litologia ne discende la stabilità del terreno che è massima dove si trova il calcare (nel regno dell’arenaria si ha la frana di località Coste), risalente ad un’era geologica anteriore come dimostra l’affioramento, punto di contatto tra collina e monte, di Pietra Larga studiato dall’Università di Napoli per datare l’emersione dell’Appennino attraverso i fossili che vi si trovano.
Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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