Gli emigranti e i restanti
di Francesco Manfredi-Selvaggi
Si prova grande commiserazione per chi è dovuto partire alla ricerca di lavoro altrove e non altrettanta per chi è rimasto in loco in quanto risultano “spaesati”, privi del proprio paese sia gli uni che gli altri, questi ultimi perché si trovano a vivere in un centro che non è più quello di un tempo a causa delle tante case vuote, dei vicoli deserti, dell’assenza di compagnia (Ph. F. Morgillo-Scorci di borghi molisani)
Diversi comuni molisani, prendi Boiano nella piazza all’ingresso di Civita Superiore, hanno dedicato un monumento all’Emigrante per ricordare gli sforzi e le sofferenze di quanti sono dovuti espatriare alla ricerca di migliori condizioni di vita. Non tutti coloro che sono emigrati hanno, di certo, “fatto fortuna”, ma tutti, comunque, hanno trovato quella sistemazione lavorativa, che in patria era difficile trovare, nelle terre di espatrio con un conseguente qualche benessere economico. Il sacrificio compiuto di dover lasciare il borgo natio è stato bene o male ricompensato, ne è valsa, autenticamente, la pena.
Ognuno di noi prova commiserazione per quelli che sono andati via, nessuno per chi è rimasto in paese dove, anche a causa dello spopolamento prodotto dall’emigrazione, la qualità dell’esistenza si è abbassata; se, da un lato, quella dei migranti è migliorata, dall’altro lato, quella dei “restanti” è peggiorata. Specie abitativamente parlando. Non si può abitare in mezzo alle macerie e così diversi centri storici sono stati definitivamente abbandonati, come è successo per porzioni di quelli di Macchiagodena e Cercepiccola. La nostalgia del bel tempo che fu non è appannaggio esclusivo di chi ha lasciato la casa avita la quale continua a rivivere solo nei ricordi perché lo è pure nell’animo di chi è rimasto.
Quest’ultimo si trova ormai spaesato nel proprio paese, quasi una contraddizione in termini; egli ha perso amici, famigliari e conoscenti ormai trasferiti altrove e soprattutto per ciò che qui ci interessa i vicini di casa, le case dei quali chiudendosi e non essendo oggetto di manutenzione si deteriorano e insieme ad esse si degrada il vicinato. Ovviamente tale sentimento di malinconia è avvertito da persone avanti con gli anni, non dai giovani non avendo vissuto la stagione precedente alle grandi ondate migratorie degli anni 50-60 quando l’abitato era ancora vivo; pertanto per questi la spinta al recupero del centro storico che pure c’è non è legato alla rinascita delle tradizioni paesane, alla ripresa di modi di vita tipici, non c’è, in definitiva, niente di nostalgico nel loro sentire l’eredità architettonica e urbanistica.
Piuttosto la voglia di recuperare il borgo è connessa ad una ricerca d’identità che significa anche un certo modo di abitare il quale si invera nella forma dell’ambiente costruito. È una situazione drammatica che rischia di far perdere la coscienza di sé agli individui poiché siamo di fronte alla dissoluzione in corso di una certa civiltà, alla fine di un mondo, non di un singolo borgo. È bene precisare che non bisogna assolutamente confondere i valori identitari con quelli etnici come dimostra l’attaccamento al proprio paese da parte tanto di coloro che appartengono a ceppi famigliari radicati in quel luogo da tempo immemore quanto dai componenti di famiglie che si sono ivi stabilite soltanto da qualche generazione.
Sono nati diversi musei del folklore, il primo in assoluto è stato quello di S. Pietro Avellana per rinsaldare la memoria specialmente di quelli che continuano ad abitare la nostra terra, i quali, quindi, possono avere una frequentazione non occasionale, perché di fronte ai radicali mutamenti in atto nella società contemporanea corrono anch’essi il pericolo, non solo quanti emigrano, di allentamento dei legami con le civilizzazioni del passato: non unicamente chi viaggia bensì pure chi resta fermo si rende conto di essere diventato un “senza patria”. Detto diversamente oltre alle persone che si sono fisicamente allontanate recandosi altrove anche coloro che non si sono mossi da qui sono minacciati dal perdere la memoria del passato a causa delle trasformazioni subite dal contesto esistenziale.
Se all’inizio era coraggioso colui che partiva, lasciare il noto per andare incontro all’ignoto, oggi è quasi un atto di coraggio il restare per le condizioni di abbandono, al limite dell’invivibilità, in cui versano le piccole realtà comunali. L’ignoto ai tempi odierni è il futuro degli insediamenti minori, il noto è la garanzia di veder assicurati servizi di cittadinanza primari negli insediamenti maggiori, dalle scuole ai presidi sanitari fino al collegamento a internet. È significativo che le cosiddette badanti siano restie a prestare la loro preziosa opera nei minuscoli agglomerati. L’organizzazione civile appare sempre più urbanocentrica anche a scala regionale dove si registra accanto alla migrazione esterna quella interna con il travaso di cittadini dai comuni al disotto dei 5.000 abitanti, i Piccoli Comuni, a quelli al di sopra di tale soglia.
A proposito della demografia si ritiene che a dover preoccupare è accanto al decremento complessivo della popolazione della regione la quale ha raggiunto il suo minimo storico, siamo meno di 300.000 abitanti, la riduzione ai minimi termini della base demografica delle entità insediative minori. Di sicuro lasciare la casa di paese per andare a vivere in un appartamento di città nella medesima provincia non è la stessa cosa che la fuoriuscita dal territorio nazionale, un qualche legame continua a persistere, la frequentazione dei parenti rimasti in loco, le feste padronali e in ultimo, letteralmente, la sepoltura con i cimiteri che si ingrandiscono malgrado i comuni si rimpiccioliscono.
I “rimanenti” sono lieti di accogliere nel periodo estivo i “fuoriusciti” che rivitalizzano seppure per un lasso di tempo contenuto il paese, i “forestieri” poi manutengono le case di famiglia diventate “seconde case”, due benefici non da poco. Per alcuni l’allontanamento dal luogo natio non è stato un obbligo, ma una scelta, un gesto per così dire estremo per sfuggire ad una situazione culturale di arretratezza, dominata dal patriarcalismo e dal conservatorismo nei costumi. C’è stata la voglia di reinventare la propria esistenza in un, alla lettera, Nuovo Mondo. All’epoca apparvero quali decisioni financo temerarie in quanto la propensione alla mobilità della gente di prima era davvero limitata. Erano pochissimi i contadini delle “aree interne” ad aver visto il mare e ora, addirittura, lo oltrepassavano per andare nelle “americhe”, c’era scarsa disponibilità al viaggiare eppure lo hanno fatto in molti.
Francesco Manfredi Selvaggi637 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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