S. Maria ovvero madonna della strada

di Francesco Manfredi-Selvaggi

Una lettura dell’impianto architettonico come risulta oggi a seguito del radicale intervento di restauro effettuato nel secolo scorso. Nonostante l’azione “restauratrice” che ha subito la chiesa conserva tanto dei caratteri originari a cominciare dalla mirabile fusione tra le decorazioni scultoree in facciata e la struttura edilizia. Appaiono queste due cose fatte dalla medesima mano, mano ad un tempo di architetto e di scultore (Ph. F. Morgillo-Immagine della chiesa)

Per la costruzione di questa chiesa non si è seguito nessun modello esistente, essa non ha subito l’influenza di alcuna opera precedente. La singolarità dei suoi prospetti formati da spessi lastroni di pietra che sono ad un tempo portanti e di rivestimento colpisce chiunque, tanto l’intenditore quanto il profano. La qualità estetica e la perfezione tecnica fanno un tutt’uno con la mirabile sovrammettitura, sia in verticale sia in orizzontale, dei grossi blocchi calcarei e la cura nell’incastro ai loro spigoli. C’è un altro aspetto altrettanto significativo in questo edificio ed è lo stretto legame tra architettura e scultura: i bassorilievi in facciata (e al di sopra dell’entrata laterale) appaiono quasi il frutto di lavoro di intaglio eseguito sull’ossatura dell’opera architettonica e, infatti, sono stati realizzati scavando con lo scalpello nella parete lapidea che oggi si direbbe “strutturale”.

Cioè non “figure”, le incisioni sovrapposte ad un muro fatto di diverso materiale come succede abitualmente nelle “lunette figurate” (vedi a San Giorgio, Campobasso, alla parrocchiale di Casacalenda, ecc,). Per quanto detto si è dell’opinione che l’apparato figurativo sia stato concepito contestualmente alla concezione del fabbricato. Un fatto davvero unico. Le maestranze dovevano essere sicuramente le medesime, ad un tempo scultori e architetti. Vista l’unitarietà dell’intervento è da dire che di certo il manufatto è stato tirato su in un arco temporale ristretto; non si leggono segni di mani differenti nell’esecuzione delle lavorazioni, né l’avvicendarsi di più fasi costruttive.

Se esternamente la chiesa è esattamente l’originale, internamente c’è il dubbio che essa sia sicuramente quella delle origini. L’azione di restauro attuata nel secolo scorso, infatti, pensando di riportare alla luce l’assetto iniziale del luogo di culto eliminò le volte a crociera mettendo in vista le capriate in legno della copertura. In qualche maniera, in maniera comunque violenta, denudò l’interno operando una radicale rivisitazione dell’impianto architettonico. Non più uno spazio suddiviso in campate, con o senza gli arconi trasversali che le delimitano, uno per ciascuna di esse, una campata per volta dovendo essere la navata coperta da una teoria di volte, bensì un ambiente unitario così come prevede lo schema basilicale, così detto perché adottato dai Romani che lo hanno inventato nelle basiliche, vedi quella di Altilia.

A suggerire l’impianto basilicale vi è, peraltro, l’assenza del transetto e, perciò, la pianta di forma rettangolare, il fatto che non sia un’aula per la presenza di navate con il bel colonnato che ne sorregge le arcate e la differente altezza dei tetti. Mentre nelle basiliche non vi sono interruzioni nel fluire dello spazio dall’ingresso verso il fondo, senza pause, vi è una continuità spaziale assoluta, al contrario la divisione del volume in campate scandisce l’interno in momenti distinti, anche se si tratta di separazioni in qualche modo virtuali. Le campate che ripartiscono la superficie equivalgono a dei moduli.

È nel XV secolo che all’articolazione in campate, al basarsi nella progettazione su un sistema modulare si attribuisce il significato metaforico della misurabilità del Creato; il fissare moduli-base da utilizzare quali moltiplicatori nel calcolo delle aree serve a controllare il mondo reale, rendendolo a misura, letteralmente, d’uomo da cui Umanesimo. Nella basilica, invece, la sensazione è quella di trovarsi in un posto di estensione indefinita (specie in senso longitudinale, del resto quello principale), manca una scala di misurazione, per cui non si riesce a verificare intuitivamente, ovvero a colpo d’occhio, la distanza che intercorre tra l’inizio e la fine della navata, non vi sono parametri fisici cui rapportarsi; non conta ciò che succede nel percorrerla, conta unicamente l’altare, il punto focale del percorso.

I restauratori che operarono qui vollero “spogliare”, il “denudare” di prima, questa fabbrica sacra innanzitutto per una questione filologica, le volte erano considerate spurie, ma anche in ossequio all’idea che si aveva del Medioevo di epoca austera per cui va spurgato il fabbricato degli orpelli presenti, attribuendo alle volte a crociera la natura di “sovrastruttura” e in effetti non partecipano della “struttura” resistente dell’edificio; tale idea di sobrietà dell’Età di Mezzo è in contrasto con lo sfoggio di decorazioni all’esterno. Se fosse vero il contrario, quindi che le volte sono coeve al resto dell’immobile, allora la loro demolizione rappresenterebbe un danno serio pure in quanto testimonianza della notevole abilità tecnica dei capomastri di un tempo perché gettare una volta è più difficile della realizzazione di una copertura in legno il cui intradosso oggi vediamo.

Si da per scontato che nei Secoli Bui si fossero perse le capacità artigianali, tutt’al più in quell’età storica si sarebbe stati in grado di voltare le navate laterali in quanto più strette, non quella centrale. Un inciso, le navate secondarie non sono poi tanto delle navatelle, con funzione di ambulacro, corridoi lunghi e poco larghi, poiché vi si può celebrare la messa concludendosi con un’abside. Le absidi sono 3, comparabili dimensionalmente fra loro, con calotta estradossata coperta con “licie”, a mò di semitrulli. Tutte e tre hanno una feritoia che funge da apertura aeroilluminante; altre sorgenti luminose sono il rosone e le finestre in fila solo su uno dei muri della navata centrale nella fascia che svetta sulle navate laterali nonostante che tali navate abbiano identica altezza, inferiore a quella che sta in mezzo. Vedere (la chiesa) per credere (a ciò che qui si è detto).

Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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