Il valore storico e il disvalore ambientale dei ponti multistrato
di Francesco Manfredi-Selvaggi
I ponti costituiti da più file di arcate sovrapposte fra loro rappresentano un’interessante testimonianza architettonica, ma nello stesso tempo nel tratto in cui sorgono costituiscono una forte modificazione dell’ambiente fluviale. Il paesaggio nello stesso tempo si arricchisce e si altera (ph. Il ponte Cardarelli di Isernia candidato quale Luogo del Cuore del Fai)
Vi sono fiumi molto incassati e allora i punti che servono a scavalcarli sono molto alti. Per realizzare questi attraversamenti è evidente che i piloni chiamati a sostenere il piano carrabile siano di notevole altezza. Le impalcature necessarie a tirarli su sono dal punto di vista realizzativo assai impegnative; è oltremodo costoso costruire incastellatura lignee, almeno un tempo, i telai metallici sono di età successiva, che si sviluppino tanto in elevazione. Per ovviare a tale problema si optava, ad esempio il ponte Cardarelli sul fiume Sordo a Isernia, per l’esecuzione di un doppio ordine di arcate, se non triplo, una specie di ponte multipiano.
Sempre per una questione di centine da predisporre non è facilmente fattibile, in alternativa alla edificazione delle pile, la creazione di un arcone poggiante sulle due opposte sponde per superare il salto. Il problema esposto non è nuovo e già i romani avevano trovato la chiave per la sua risoluzione, vedi i lunghissimi acquedotti replicati anche in epoca successiva, prendi i “Ponti della Valle” a Maddaloni, acquedotti ovvero ponti con molteplici archeggiature le une appoggiate sulle altre. La differenza tra una serie, duplice o addirittura triplice che sia, di archi di un’opera acquedottistica dell’antica Roma quando corre in piano e la sovrammettitura di portali arcuati di un ponte su una valle a V pronunciata è che la prima è di dimensione, verticale, costante mentre il secondo ha un numero variabile di archi che si sovrappongono fra loro.
Infatti man mano che ci si allontana dalla mezzeria dell’alveo la quantità di archi che si assommano verticalmente si riduce poiché si riduce la differenza di quota tra il piano di campagna e l’incisione valliva fino ad arrivare in prossimità delle sponde ad avere un unico arco. Se si dovesse scegliere invece di adottare la tipologia, al posto di quello pluripiano, di ponte sorretto da pile che vanno giù fino al fondo, queste ultime non avrebbero tutte la medesima altezza, bensì l’andamento altimetrico della struttura portante del ponte risulterebbe scalettato, in entrambi sensi partendo dall’asse centrale del corpo idrico, venendo ad assomigliare, per capirci, a canne d’organo. Nella progettazione delle spallette dei ponti (che sono una, o meglio due, per ogni teoria di arcate) in queste situazioni morfologiche, cioè di versanti assai inclinate della vallata fluviale, bisogna tener conto della stabilità del pendio su cui si appoggiano per evitare il franamento dello stesso.
Per quanto riguarda l’impatto paesaggistico è ovvio che i ponti su più file di arcate hanno una forte incidenza visiva, ma nello stesso tempo va riconosciuto che essi costituiscono una interessante testimonianza dell’arte costruttiva storica. Oggigiorno allo scopo di minimizzare la visibilità dei ponti e, quindi, non alterare troppo il paesaggio, lasciando il più possibile integro l’ambiente fluviale, si punta su ponti ad unica tesa, ancor meglio con impalcato estremamente sottile, quasi una lastra sospesa nel vuoto. Si tratta di ponti che si distinguono con immediatezza da quelli di un tempo perché di forma rettilinea, non arcuata anche se, in effetti, pure oggi si fanno ponte ad arco, però non più in pietra o laterizio bensì in cemento armato come quello dell’Arcichiaro il quale ha una sola campata nonostante che la distanza che intercorre tra i lati dirimpettai dell’orrido del Quirino sia notevole, un’opera ingegneristica davvero ardita.
Se le vallate sono larghe e basse i ponti sono formati dal succedersi di una sola serie di archi, non c’è bisogno di archeggiature a più livelli. In genere i ponti sono composti da archi, telai nel caso di quelli in c.a., della medesima sezione, longitudinale oltreché, è scontato, trasversale. Dalla numerazione degli archi prendono il nome due dei più importanti ponti del Molise, quello dei 25 Archi sul Volturno e quello dei 13 Archi sul Fortore, quasi che più archi vi sono più il ponte è importante. Avere tanti archi per un ponte è motivo di orgoglio e non si capisce la ragione per cui non lo sia il quantitativo di archi che si succedono verticalmente e non, come nei ponti definibili di pianura, orizzontalmente (il già citato ponte Cardarelli).
C’è un aspetto che finora non abbiamo considerato e lo facciamo adesso il quale è strettamente legato all’estensione del ponte, l’equidistanza fra le pile. Esso è quello che i fiumi che solcano zone pianeggianti sono larghi il che non significa che nell’attraversare le fasce planiziali la portata aumenta per cui il proprio letto deve diventare più ampio. Dipende tale maggiore larghezza dalla circostanza che, diminuita la velocità della corrente poiché la pendenza qui è minima, i fiumi depositano i detriti che hanno trasportato a valle da monte, le sorgenti sono, di norma montane. Il fiume è costretto così a divagare tra i depositi che si sono accumulati nel piano non avendo le energie per scavare un solco rettilineo.
Il corso d’acqua forma anse cercando di trovarsi una via tra la distesa dei ciottoli. Un inciso, questi tratti sono appetitosi per le imprese estrattive che cavano gli inerti. I ciottoli che il fiume rilascia in questi punti nel suo incedere verso il mare vengono a formare degli autentici isolotti o penisolotti, una speciale terraferma fra i rami nei quali si ripartisce il flusso idrico. Tali particolari isole sono, però, mobili, difficilmente risultano stabilizzate per cui non si può far conto sulla loro saldezza per posizionare le pile del ponte. Ciò comporta che il ponte venga disegnato avente arcate tutte uguali pur sapendo il progettista che solamente una, o alcune nel caso di fiumi pluricursuali, comunque poche, è interessata dal passaggio dell’acqua, gli altri risulteranno in breve ostruite. Abbiamo parlato di ponti e di acquedotti trovando analogie tra di loro senza fare alcun accenno ai viadotti che appartenendo alla modernità non rientrano nella finalità di questo intervento di mettere in luce una categoria di bene storico.
Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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