La consistenza patrimoniale di un castello

di Francesco Manfredi-Selvaggi

Una struttura castellana ha differente valutazione se riutilizzabile per usi contemporanei oppure se ridotta a rudere, in quel caso non ha più alcuna funzionalità pratica. Vi è un particolare tipo di maniero in cui il vuoto predomina sul pieno e ciò, l’assenza di vani, impedisce il suo riuso per, mettiamo, un museo (ph. Mura Aragonesi e Castello Svevo a Termoli)

Mettiamo che si avesse in animo di stilare un programma di recupero del patrimonio castellano, allora l’occasione buona per i Comuni interessati più o meno da vicino, e sono tanti, dal passaggio dei tratturi sarebbe la stesura del piano di interventi da ricomprendere nel CIS. Prima di procedere, comunque, sarebbe utile chiarirsi su che consiste tale lascito patrimoniale risalente al Medioevo. Forse vale la pena iniziare richiamando quanto ha sostenuto il Perogalli nel volume “Castelli di Abruzzo e Molise” scritto quando si trattava di un’unica regione. Lo studioso in questo, appunto, studio tende a cercare i caratteri comuni tra gli esemplari di castelli abruzzesi e molisani trovandone uno in particolare, la sua configurazione come un recinto, semplicemente come una cerchia di mura cui sono aggregate una o più torri.

Anzi per l’autore del libro l’area abruzzese-molisana ha la primogenitura a livello nazionale per questa forma di castello. Ovviamente la tipologia di castello-recinto è un ideal-tipo di maxweberiana memoria, i casi in cui si invera possono essere assai diversi tra loro, dal castello di Pesche che il Perogalli ritiene essere il più antico, nella regione gemella non ve ne sono di così remoti, castello avente la cinta triangolare in pendenza seguendo le mura l’andamento scosceso del pendio, al castello di Tufara che sorge su un banco di roccia, perlappunto, tufacea che in sommità spiana. Ai fini della loro rivitalizzazione essendo essenzialmente dei “vuoti”, non dei pieni, cioè sono privi di vani, l’ipotesi che è possibile formulare per il riuso è solo quella di organizzarvi, in determinate occasioni, eventi musicali o teatrali all’aperto a meno di non voler costruire all’interno del loro perimetro un fabbricato come pure si era pensato di fare a Tufara, avente destinazione sede municipale.

In fin dei conti tale modo di intendere la valorizzazione non è molto dissimile a ciò che è possibile concepire per i castelli allo stato ruderale. Detto diversamente castello-recinto e castello ridotto a rudere sono accumulabili fra loro in riguardo alle potenzialità di reimpiego. Tra i castelli in rovina si cita perché quello planimetricamente più ampio e perché è stato il quartier generale dei conti di Molise il castello di Civita Superiore, ma vale la pena ricordare anche, per la suggestività dei resti e dello scenario paesaggistico in cui è ricompreso, la rocca, si impiega questo termine perché compare anche nella denominazione del Comune, che sta a Roccamandolfi.

Per i castelli dei quali sopravvivono pochi brandelli, i quali, per inciso, sono quelli isolati collocati su impervie alture, prendi il castello di Longano di cui rimangono in piedi un moncone del mastio e degli spezzoni di mura perimetrali, sarebbe opportuno adottare le metodologie del restauro archeologico qualora vengano assegnati fondi per il loro recupero. Si dovrebbe prevedere prioritariamente, cioè prima dell’avvio degli scavi per la ricerca di tracce sepolte, la realizzazione di passerelle per i visitatori che consentano di osservare dall’alto ciò che rimane dell’opera castellana, privilegiato punto di osservazione dell’impianto del castello non necessariamente legato ai lavori di ricerca archeologica e tanto più utile durante l’esecuzione di esplorazioni nel sottosuolo e delle lavorazioni di ripristino impedendo al pubblico di interferire con il lavoro degli archeologi, esclusivamente assistervi.

In definitiva il pontile predetto è utilizzabile tanto in “tempo di pace”, quando cioè non vi sono saggi in corso, quanto in “tempo di guerra”, quando, al contrario, il cantiere archeologico è in attività. Sono auspicabili pensiline per la protezione delle parti più vulnerabili, intonaci e pavimenti in cotto qualora stiano allo scoperto, alle intemperie. Si va affermando, poi, nel campo dell’archeologia e trasferibile anche alla castellologia la moda, per così dire, della creazione di “giardino con rovine” il quale dovrà essere uno spazio esteso ad un intorno significativo del sito castellano.

Meglio ancora se il giardino in questione è incluso in un parco naturale, va bene pure un Sito di Importanza Comunitaria come succede ai resti di S. Maria di Guglieto a Monteverde, o se è raggiungibile con un viale che parte dal nucleo insediativo in modo da renderlo facilmente fruibile dalla cittadinanza; il viale che conduce da Montagano a Faifoli dove vi sono testimonianze della Fagifulae romana era stato realizzato, con tanto di panchine in pietra che consentono di sostare lungo il percorso, dai proprietari della villa ottocentesca che si affiancava alla badia, con un neologismo, fagifolana. Si sono dette diverse cose sulle azioni da compiere per la salvaguardia dei castelli a rudere e poche, una sola, se ne sono indicate per i castelli-recinto.

Alcune delle proposte formulate per i primi sono, in effetti, valide anche per i secondi. Tra tali due categorie di castello sono più gli aspetti che li uniscono che quelli che li dividono a cominciare dalla consistenza volumetrica che è nulla in entrambi. La vacuità interna è per un castello-recinto la sua condizione per così dire esistenziale mentre per un castello allo stato di rudere è una condizione che ha acquisito nel tempo per cui, salvo che sia un impianto a corte e limitatamente alla corte stessa, occorre accertare la sussistenza di evidenze dell’opera fortificata. C’è, inoltre, il particolare caso del castello-recinto a rudere. In conclusione, è indispensabile porre attenzione di fronte ad una unità castellana per stabilire se si tratta di un castello-recinto o un castello ruderale allo scopo di poter decidere consapevolmente la strategia di conservazione da adottare.

Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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