La bellezza nelle mani dei bruti. Mino Pecorelli a 46 anni dalla morte

di Giovanni Petta

SESSANO DEL MOLISE. Cosa dovrebbe fare un giornalista per essere tale? Per non essere soltanto un vettore che veicola comunicati-stampa? Per non ridursi a diffondere la visione del mondo dei proprietari della testata giornalistica per cui lavora, di sponsor e amici dei proprietari?

Un giornalista dovrebbe essere curioso. Capace di creare una rete di informazione originale ed efficace, almeno negli ambiti che ritiene più interessanti per il proprio lavoro. Dovrebbe essere un osservatore attento. Dovrebbe possedere una scrittura agile, utile allo scopo, giornalistica. Dovrebbe sistemarsi al centro di un incrocio di persone che sanno e da ognuna di loro prendere ciò che è vero e ciò utile a capire. Scartare ciò che viene dato per interesse, per migliorare la propria posizione o peggiorare quella dei propri concorrenti; le informazioni date per condizionare una situazione economica o politica in atto, per influenzare una decisione.

Mino Pecorelli era proprio questo. Le sue conoscenze penetravano ogni ambito della società e le informazioni che otteneva erano sempre nuove, originali, sorprendenti. I giornalisti del mainstream di allora, oggi comodi e anziani signori, ricordano che nelle redazioni dei grandi giornali, nella seconda metà degli anni Settanta, si aspettava con ansia e curiosità l’uscita di “OP”, l’Osservatore Politico di cui Pecorelli era direttore e anima.

Ci sono voluti quarant’anni per affermare la verità della figura di Mino Pecorelli. Solo da qualche tempo si pubblicano scritti privi di quel subdolo dire-nondire che ha caratterizzato la pubblicistica sul giornalista di Sessano. Per tanti anni è stato meglio non scrivere di lui. E, se costretti, meglio non enfatizzare le sue qualità di indagine, spesso destabilizzanti per il potere. Meglio tenersi alla larga.

Rosita Pecorelli, invece, si è tenuta accanto a suo fratello, per tutti questi anni. Ha combattuto e preteso verità. Secondo alcuni, almeno negli anni immediatamente successivi all’omicidio di Mino, ha rischiato molto anche lei nel pretendere verità non soltanto giudiziarie. Voleva soprattutto che fosse finalmente affermata la verità sulla persona, sull’essere umano, mentre i colleghi cercavano di farlo apparire diverso da ciò che era, persino iconograficamente… la fotografia usata per anni, quando si parlava di lui, quella con le labbra gonfie e il viso scuro e accigliato, non era altro che una foto fatta per gioco, facendo le smorfie, in una di quelle cabine dell’autoscatto che erano tanto in voga a quei tempi. Sempre quella foto e mai una di quelle – eppure erano numerose – in cui veniva fuori la chiarezza del volto, la statura, l’eleganza…

Il 20 marzo del 1979, Mino Pecorelli venne ucciso da “”ignoti” che sono rimasti tali, nonostante gli avvicinamenti alla loro identità da parte di procure e tribunali.

Non aveva ancora compiuto 51 anni. Era un bell’uomo, come dimostrano le foto che i suoi colleghi non hanno mai voluto pubblicare. Era un “bel” giornalista, come dimostrano i numeri di “OP” che ancora si possono leggere (difficili da reperire anche in quelle biblioteche che raccolgono e conservano ogni tipo di incartamento inutile). Un ottimo giornalista, come dimostrano i risultati raggiunti dalla sua attività, organizzata e condotta con gli strumenti che solo da qualche decennio vengono finalmente riconosciuti come necessari per chi voglia fare seriamente il giornalismo d’inchiesta.

Se non ci fosse stato Mino Pecorelli, avremmo portato i bambini con le bandierine tricolori ai funerali di Andreotti. A distanza di 46 anni dal suo omicidio, se non vogliamo ancora riconoscere la sua “bellezza”, riconosciamogli almeno questo merito.

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