La rinascita delle aree interne: il “modello” Molise

di Giorgio Arcolesse*

Nel bel mezzo di una pandemia destinata a cambiare la storia, in tv e sulla stampa nazionale si è levata qualche flebile voce a descrivere il “modello Molise”. Al momento si tratta della Regione italiana con minor numero di contagiati da coronavirus, ma non è dell’aspetto sanitario che voglio parlare.

Quello che colpisce è la resilienza degli abitanti di un lembo di terra sconosciuto a tanti, la resistenza – diretta conseguenza di peculiari aspetti socioeconomici e ambientali – di una regione che è l’emblema di tante aree interne (appenniniche del CentroSud Italia, collinari e montane del Nord), ovvero di un’Italia “che esiste e lavora nel silenzio, anche se è quella di cui si dovrebbe parlare di più”, come recita un recentissimo spot televisivo.

Il naturale isolamento, la scarsa densità demografica (67,9 ab/km quadrato), la dispersione sul territorio (302 mila abitanti su 136 comuni), assieme al controllo sociale e all’osservanza delle disposizioni spiegano – nonostante un paio di focolai in case di riposo, con relativa coda di polemiche e inchieste giudiziarie – il basso numero di contagi, con 99 comuni ancora oggi virus-free.

Tanto la dispersione abitativa quanto la scarsa industrializzazione improvvisamente diventano elementi di oggettiva forza; a pensarci bene, si tratta degli stessi elementi da sempre considerati – con i parametri dell’economia tradizionale – punti di debolezza, tali da giustificare scellerate politiche di tagli di servizi essenziali (scuole, uffici, ospedali, trasporti), resi ineluttabili dai meri criteri ragioneristici delle economie di scala.

Le inchieste e gli studi scientifici chiariranno o confermeranno tante ipotesi, quali la correlazione tra inquinamento e diffusione del Covid 19; chissà se nel caso molisano ha un ruolo anche la ventosità, che contribuisce a disperdere il (di per sé ridotto) carico inquinante.

Rossano Pazzagli, professore presso l’Università del Molise e direttore di ArIA, Centro Ricerca per le Aree interne e gli Appennini, ripete spesso un aneddoto. Quando nei tanti piccoli borghi molisani incontra un residente gli chiede “cosa c’è da voi”? E si sente rispondere: “niente”! Non è vero: ci sono aria pulita, acqua pura, cibo di qualità, tradizioni millenarie, il senso della comunità, paesaggi modellati sapientemente dall’uomo con perizia e paziente lavoro di secoli, ma anche “beni” come la lentezza e il silenzio, che non hanno un prezzo ma un grande valore.

Più delle decine di convegni sulle aree interne, più degli stand strapagati in prestigiose fiere del turismo, forse un minuscolo essere invisibile riuscirà a compiere il miracolo di far scoprire o riscoprire territori marginali dal punto di vista economico, ma fondamentali per la conservazione della biodiversità come le aree marginali del Paese, quelle “terre dell’osso” devastate dall’emigrazione (e incapaci di attirare strutturalmente immigrazione), ma ancora capaci di vitalità inattesa.

Tale processo di scoperta potrebbe essere facilitato dal bonus turismo, rivolto alle famiglie che trascorrano le vacanze in Italia, di cui si parla proprio in queste ore. Un turismo lento e sostenibile, che coniughi emergenze storiche-architettoniche, riscoperta delle radici genealogiche (penso ad un’azienda capace di visione come ItalyMondo), enogastronomia, aree protette, valori naturalistici, sport “en plein air”, quali il camperismo, il turismo equestre, e il cicloturismo sui tracciati tratturali. Tale turismo non può non incrociare il settore primario (mai termine si è rilevato più indovinato!) della agricoltura e della zootecnia, che qui, salvo eccezioni, rifuggono metodi intensivi, e antepongono la qualità alla quantità.

Gli agricoltori-allevatori, veri custodi del territorio, possono definirsi eredi di una lunga tradizione – che risale ai progenitori sanniti – di eco sostenibilità, portatori sani di quelli che Luciano Sammarone, direttore del Parco Nazionale Abruzzo Lazio e Molise, chiama (in luogo di insulsi termini anglosassoni) “i valori della civiltà agrosilvopastorale”.

Il recente studio condotto dal laboratorio CULTLAB della Scuola di Agraria dell’Università di Firenze, in collaborazione con l’Osservatorio Nazionale del Paesaggio Rurale, fornisce una conferma alle nostre considerazioni. Partendo dall’osservazione che nelle aree in cui si pratica agricoltura non intensiva (l’intero Molise, cfr cartina allegata) si registra una minore incidenza del Covid-19, il professore Mauro Agnoletti, coordinatore del progetto, si spinge a proporre “un modello di sviluppo da cui ripartire una volta superata l’emergenza”. Più che nuovo è, a mio avviso, un modello molto antico, ma ancora incredibilmente attuale e tale da poterci fornire una interessante prospettiva di futuro.

Non bisogna mitizzare e idealizzare il “borgo”; qualsiasi amministratore è consapevole delle difficoltà quotidiane a fornire servizi essenziali, ad attrarre risorse, a far restare i giovani. Ma le nuove tecnologie – da noi tutte sperimentate durante questa lunga reclusione – rendono possibile la permanenza nelle aree interne, si pensi alla didattica a distanza, o alla telemedicina.

La messa in sicurezza del territorio, preda del dissesto idrogeologico, un ripensamento del trasporto locale, che ritari l’offerta su gomma e riattivi, ove possibile, quella su rotaia, la ristrutturazione dell’ingente patrimonio abitativo, anche sul modello dei “borghi del benessere“ per persone anziane, autosufficienti e non, che possano vivere la loro condizione di fragilità in una comunità accogliente: tutti questi interventi possono dare servizi essenziali ai cittadini, nuova linfa alle imprese locali, anche artigianali, e consentire lo sviluppo delle cooperative di comunità.

Non un ritorno al passato o al piccolo modo antico, impossibile e nemmeno desiderabile, ma un grande investimento sul futuro sostenibile da ogni punto di vista: ambientale, economico, sociale.

Se vogliamo che le aree interne d’Italia non diventino lo sfasciume già descritto da Giustino Fortunato, e alla frana demografica segua quella fisica dei territori verso i fondivalle e il mare, non c’è occasione migliore di questa. Chi tutela e valorizza giorno per giorno i servizi ecosistemici – e per tale indubbio merito deve essere incentivato con ogni mezzo dallo Stato – potrà essere messo in condizione di renderli fruibili alla stragrande maggioranza di italiani che vive nella “polpa”, ovvero in contesti urbani dotati di maggiori servizi, comodità e opportunità.

* VicePresidente Legambiente Molise

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