“Un borghese piccolo piccolo”

di William Mussini

Considerazioni sul capolavoro di Mario Monicelli

Il romanzo dal titolo “Un borghese piccolo piccolo” scritto da Vincenzo Cerami e pubblicato nel 1976, ha ispirato l’omonimo film capolavoro del Maestro Mario Monicelli, uscito nelle sale soltanto l’anno seguente. Correndo il rischio di ribadire cose già note, vorrei comunque provare a raccontare qualcosa di più di un film cult, anche e soprattutto alle nuove generazioni; di quanto sia stato lucido e profetico il resoconto degli autori nel descrivere quegli anni di trasformazione sociale ed economica, in primis di quella molliccia classe media italiana tradita dal sogno del benessere, progenitrice dell’attuale apparato sociale contemporaneo che tanto le assomiglia.

Le prime inquadrature del film mostrano in dettaglio l’uccisione di un pesce appena pescato dal protagonista, l’impiegato ministeriale Giovanni Vivaldi (straordinariamente interpretato da Alberto Sordi), che con una gestualità violenta ma allo stesso tempo cinicamente consona, offre allo spettatore un primo momento di tenue raccapriccio, preludio grottesco di scene ben più drammatiche che susciteranno in scala crescente gli stessi sentimenti contrastanti. Ben presto veniamo a sapere che Giovanni Vivaldi è ormai prossimo alla pensione ed ha come unico desiderio, dopo una vita di sacrifici, quello di vedere per il figlio Mario (interpretato da Vincenzo Crocitti) una realizzazione impiegatizia. Il giovane Mario è da poco divenuto ragioniere e si prepara ad affrontare le prove di un concorso indetto dallo stesso Ministero in cui ha lavorato il padre.

Il “borghese” Giovanni, da buon rappresentante di quella categoria di impiegati ossequiosi ed adulatori del potere, scende a qualunque compromesso per far sì che il ragazzo riesca ad ottenere l’agognato “posto fisso”. L’anziano padre, arriva anche ad affiliarsi alla massoneria per assicurarsi il favore di personaggi influenti. Un tragico destino però attende Mario la mattina della prima prova scritta; un proiettile vagante esploso da un rapinatore di banche mentre è in fuga dalla polizia, colpisce a morte il ragazzo, lasciando suo padre nella più totale disperazione. Nell’apprendere la notizia della morte di Mario, anche la madre (un’inedita Shelley Winters), viene colpita da un ictus che la confina su una sedia a rotelle, semiparalizzata e afasica.

Il povero Giovanni Vivaldi e la sua consorte, vivono da quel momento in poi la disfatta totale della propria condizione umana. Tutte le convinzioni che prima della tragedia li avevano sorretti e motivati, crollano una dopo l’altra rivelando la natura effimera, materialistica ed ipocrita della loro classe sociale di appartenenza fondata sul conformismo. La madre Amalia che fino a poco prima della tragedia si affidava completamente alla propria fede religiosa, supplicando attraverso la preghiera che ogni cosa andasse per il verso giusto, si ritrova ora spettatrice di un declino progressivo di quei valori che sembravano prima inalienabili.

Poco a poco, l’anziano padre si trasforma da vittima di un fato avverso a spietato vendicatore. Nel film appaiono ben visibili i riferimenti umorali di sconfitta e livore, grazie alla sapiente regia e narrazione visiva, alla progressiva concatenazione degli eventi sublimata dalla strepitosa recitazione di entrambe gli attori protagonisti.

Dalla parodia grottesca delle scene iniziali, si passa alla tragedia semplice e pura. La sciagura giunge man mano a maturazione sin dal primo sentimento di ripudio da parte di Giovanni nei confronti di quei personaggi (amici massoni) che si mostrano adesso insensibili, cinici, noncuranti dell’immane dolore per la perdita del figlio. Il “piccolo borghese” adesso si sente nudo, tradito da chi fintamente per anni gli si mostrava amico ma da una posizione dignitaria; il padre sconfitto ora assume una nuova consapevolezza che lo rende capace di rapire il carnefice involontario del suo unigenito e di ordire una punizione esemplare, al disopra della legge e al di fuori della morale cristiana che sino ad allora lo relegava alla mitezza ed alla sudditanza gerarchica.

Tutta l’insoddisfazione, la rabbia repressa, tutti gli ossequi ai superiori, le strette di mano interessate, i sotterfugi per ottenere privilegi (dal posto auto sotto l’ufficio alla raccomandazione massonica per far vincere il concorso al figlio ragioniere), si sono adesso trasmutati nella bestialità e nella violenza cieca d’un padre ferito e di un uomo fallito. Nella sua baracca sul lago, Giovanni tiene prigioniero il giovane rapinatore. Lui lo ha ferito gravemente alla testa per poterlo sequestrare, il ragazzo sanguina vistosamente e Giovanni si premura di disinfettare la ferita perché forse vuole mantenerlo in vita il tempo necessario per mostrarlo a sua moglie Amalia. Arriva il giorno della rivalsa, Giovanni ostenta con orgoglio ad Amalia che è stato capace di vendicare la morte di Mario, di catturare la belva da solo e senza l’aiuto della polizia; conduce la donna sulla carrozzina a cospetto del giovane assassino inerme.

Monicelli in questa scena determinante, accosta l’agonia di un moscone a quella del prigioniero, entrambi muoiono davanti agli occhi di Amalia rimasta da sola nella baracca. I sentimenti contrastanti qui si sommano sino a saturare di angoscia lo spettatore. Si avverte il disagio di Amalia nel vedere un’altra giovane vita spegnersi, l’impotenza dovuta alla paralisi, la compassione nei suoi occhi per quel giovane sventurato e per un marito divenuto carnefice. A nulla serviranno la disperazione e le urla di Giovanni che nel rientrare si rende conto della morte del rapinatore; si ha quasi l’impressione che la sua disperazione dipenda anche dal fatto che in preda alla follia, nel fondo del suo animo martoriato di padre, quel giovane avesse in qualche modo sostituito la figura del figlio, in una sorta di giuoco macabro attraverso il quale realizza a pieno la vendetta.

Al dramma si aggiunge il dramma, nel finale Amalia muore, la scena mostra un Sordi all’apice della sua carriera attoriale, capace di una interpretazione struggente, sentita, cruda, autentica, letteralmente da brividi.

“Un borghese piccolo piccolo”, il racconto letterario e ancor più il film di Mario Monicelli, rappresenta a mio parere l’opera di drammaturgia sociale più significativa e profetica degli anni della prima Repubblica. Racconta con sapiente ironia e sensibile disincanto, il mondo corrotto e conformistico della borghesia italiana del tutto radicata nella cultura massonico/cattolica post classica; il film mostra tutte le debolezze di un apparato sociale, politico ed economico intimamente corrotto ed in perenne trasformazione che giungerà, sotto mentite spoglie e aimè rafforzato grazie al materialismo della modernità, sino ai giorni nostri.

William Mussini76 Posts

Creativo, autore, regista cinematografico e teatrale. Libertario responsabile e attivista del pensiero critico. Ha all'attivo un lungometraggio, numerosi cortometraggi premiati in festival Internazionali, diversi documentari inerenti problematiche storiche, sociali e di promozione culturale. Da sempre appassionato di filosofia, cinema e letteratura. Attualmente impegnato come regista nella società cinematografica e teatrale INCAS produzioni di Campobasso.

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