Vuoti urbani anche se pieni: edifici abbandonati

di Francesco Manfredi-Selvaggi

Oltre che alle aree rimaste prive di funzioni come quella dove ora sorge la Città nella Città, vi sono numerosi immobili che attualmente sono in abbandono, dal Roxy all’Ariston. Quest’ultimo di interesse architettonico e si teme che esso possa subire la stessa sorte del deposito ex Enel, anch’esso architettura di pregio.

L’area urbana propriamente detta è stata oggetto negli ultimissimi decenni di due processi contrapposti, da un lato quello della intensificazione delle volumetrie residenziali, dall’altro quello della dismissione di una certa parte delle volumetrie non residenziali. Il rapporto tra tali due fenomeni è alle volte diretto come nel caso di sostituzione di una cubatura ad uso produttivo con una abitativa: succede a corso Bucci con l’intervento denominato Città nella Città la quale sorge lì dove prima c’era il mulino Ferro. Il tema del rinnovamento edilizio non si pone, in effetti, sempre nei termini di cambiamento delle destinazioni d’uso per cui si procede ad abbattere un fabbricato di natura produttiva o per servizi per realizzare in sua vece alloggi, potendosi verificare che si demolisca per aggiornare la struttura costruttiva senza modificarne la funzione.

Le ragioni addotte a giustificazione di tali scelte sono quelle di fatiscenza del corpo di fabbrica e, insieme, di impossibilità di adeguamento sismico; ambedue le motivazioni sono alla base della decisione da parte dei proprietari di abbattere il deposito Enel di via Gazzani (è bene dirlo, se l’immobile fosse stato riconosciuto quale bene storico le norme da applicare ai fini della difesa dai terremoti sarebbero state meno rigide). Bisogna specificare ora che si è molto allargato il concetto di assenza di mutazione funzionale in conseguenza della recente disposizione legislativa in materia di Piano Casa: in essa viene sancita l’intercambiabilità degli utilizzi di un’opera fra differenti categorie urbanistiche, ad esempio fra magazzino ed esercizio commerciale.

È proprio ciò che si intende fare qui, sottolineando per quanto riguarda questa trasformazione che essa è favorita dal fatto che si tratta di un capannone il quale, per sua natura, ha una versatilità di impiego tanto che viene adoperata la definizione di “contenitore”. Ciò che suscita perplessità, perciò, non è il passaggio da rimessa a supermercato, ma la possibilità di ricostruirlo identico al precedente; nonostante i rilievi grafici più precisi è difficile avere una copia di un’architettura di qualità del medesimo valore dell’originale. Il deposito Enel non è (era) semplicemente, per le sue notevoli valenze formali, una testimonianza del periodo della paleo industria. Siamo (eravamo) di fronte ad un esemplare di pregio di archeologia industriale.

Il richiamo a Behrens, un pioniere del Razionalismo, è sorprendente, non vi è niente di simile in città. Probabilmente si è potuto osare tanto dal punto di vista stilistico perché è un “oggetto”, in fin dei conti, piccolo, cosa che non sarebbe stata accettata per gli opifici maggiori (magari lo stesso mulino Ferro). Si è ritenuto, forse, che posizionato com’era a ridosso del borgo murattiano necessitasse di una particolare cura nell’aspetto esteriore. Prima si è usata la parola sorprendente per lo stupore che dovette suscitare nei contemporanei a vista di un manufatto dai caratteri linguistici così “modernisti”, che cioè adotta gli stilemi dell’Avanguardia architettonica.

Non è che non vi fossero nella regione in quell’epoca altri interessanti fabbricati per i vari settori lavorativi pure con una veste esterna decorosa, è solo che essi esprimevano la propria dignità attraverso l’applicazione in facciata di modanature tratte dalla tradizione classica (si prenda la importante centrale idroelettrica di S. Massimo che assomiglia ad una chiesa romanica). Il deposito ex Enel fu una scelta addirittura eversiva per quei tempi (anche se al passo con i tempi), quella di denunciare apertamente il suo essere un manufatto legato al mondo tecnico senza cercare di nobilitarsi attingendo, per il disegno dei suoi fronti, dal repertorio dell’ “ecclettismo stoicistico”.

In questo edificio in passato si era ipotizzato che venisse ospitata una collezione di arte contemporanea, quanto di più appropriato per tale fabbricato che è anch’esso espressione artistica della contemporaneità. La singolarità dell’opera non permette di considerarlo emblematica la vicenda che la ha riguardata di un atteggiamento generale del nostro centro verso le preesistenze.

In verità, qui da noi sembra essere stata una costante quella di abbattere le vecchie fabbriche per attuare sul loro sedime nuovi interventi immobiliari, almeno dall’età post-unitaria con l’eliminazione degli stabili conventuali, ormai passati al Demanio, sfruttandone il sito per le attrezzature pubbliche che dovevano essere presenti nelle Province del Regno d’Italia: il Municipio, la Prefettura, il Convitto Mario Pagano, l’Ospedale si installano, letteralmente, sui monasteri ormai soppressi. Sarà perché non vi erano palazzi prestigiosi da riattare per farne sede delle istituzioni dato che Campobasso al momento dell’unificazione della nazione era poco più che un borgo (con l’eccezione di quello della famiglia Cannavina, in precedenza dimora feudale).

In seguito il modus operandi cambierà e all’emergere di un accrescimento dei fabbisogni si provvederà non alla sostituzione edilizia, bensì alla sopraelevazione (il Tribunale e l’Ospedale) o all’ampliamento (il Municipio) delle vecchie strutture, peraltro con esiti, sotto l’spetto estetico, poco convincenti. Tale logica si sarebbe potuta applicare anche al deposito ex Enel per aumentare la superficie di vendita, aggiungendo sul retro un’ala al volume esistente, un po’ come ha fatto la Provincia che si è ingrandita posteriormente senza alterare in maniera forte l’immagine di Palazzo Magno. È diventata oggi una problematica prioritaria per il capoluogo regionale il recupero di immobili ormai abbandonati a causa della fuoriuscita dal nucleo centrale dell’abitato di tante attività. È attualissimo il dibattito sul futuro del cinema Ariston per il quale, date le sue dimensioni, non si può pensare ad una riconversione a locale di divertimenti che per il cinema Modernissimo si è rivelata fallimentare. Ci sono, poi, il Roxy, gli istituti scolastici, a cominciare dalla Casa della Scuola, gli stabilimenti artigianali, la tipografia Colitti, e l’elenco potrebbe continuare.

Francesco Manfredi Selvaggi637 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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