Un tribunale dorico

di Francesco Manfredi-Selvaggi

Il Palazzo di Giustizia di Campobasso è caratterizzato dalla presenza in facciata di un colonnato, in verità semicolonnato, in stile dorico, quello che più ben si addice alla sede dell’amministrazione giudiziaria rimandando al concetto della severità della pena.

Prima il tribunale era nel borgo medioevale, ma come ogni funzione urbana, rappresentativa o meno, esso venne trasferito nel Nuovo Borgo e, però, perché più tardi delle altre, in epoca fascista, dovette accontentarsi di una collocazione non proprio ideale. Non, di certo, un sito marginale perché ci troviamo proprio vicino al municipio, quindi nel cuore della città e, nello stesso tempo, non in un lotto autonomo, a sé stante, indipendente dal resto dell’edificato, come sarebbe convenuto ad un’amministrazione, quella giudiziaria, di rango primario.

Si collocò in testata ad una delle schiere edilizie che delimitano la piazza Vittorio Emanuele II, con un lato del fabbricato spalla a spalla con un edificio per abitazioni, accostamento alquanto penalizzante sia dal punto di vista dell’immagine di tale istituzione facendole perdere un po’ della sua “sacralità”, sia da quello della funzionalità della distribuzione interna essendo impedita l’apertura di finestre, evidentemente, nella parete in comune con il fabbricato adiacente.

È indubbio che sarebbe stato di maggior prestigio per il centro cittadino avere il suo fronte lungo, quello di via Nobile, disposto su viale Elena, rigirando la pianta dell’immobile (o, addirittura, spostare lo stabile di fronte alla casa municipale). In definitiva, il sedime del tribunale ha il sapore di un’area residuale, l’ultima rimasta libera nel Borgo Murattiano. A sollecitare tali riflessioni è il fatto che la forma delle facciate ha chiari rimandi a quella dei templi greci, i quali stanno sempre isolati, non accettando contaminazioni con strutture contigue.

Essi sono, in qualche modo, il simbolo della purezza la quale verrebbe contraddetta dalla vicinanza a qualunque tipo di opera, dunque una situazione ben diversa da quella, per capirci, del dirimpettaio palazzo della Provincia che non soffre dell’affiancamento con manufatti privati pur sempre palazzi coi quali condivide, salvo le teste fuoriuscenti dal muro e qualcos’altro, i caratteri stilistici di fondo. Ritorniamo alla comparsa di un tempio nel nucleo centrale di Campobasso, una superficie tutto sommato ristretta, nel quale si vanno affollando in meno di un secolo episodi di architettura diversissimi fra loro tanto per datazione quanto per riferimenti a correnti artistiche.

Abbiamo così esempi di eclettismo storicistico, i più numerosi, che vanno dal Distretto al Mario Pagano, del floreale, la serie di villette liberty che si conclude con Villa Maria, del razionalismo, la GIL, dell’International Style, il cosiddetto palazzo di vetro. È un panorama urbano, come si può vedere, estremamente cangiante, l’unica cosa che non muta è l’allineamento nella scacchiera viaria disegnata dal Musenga. Scuole di architetture di età differenti non determinano, comunque, una disorganicità totale dell’insieme urbanistico.

Limitandoci alla questione dell’aspetto fisico del tribunale non c’è, a ben vedere, una contraddittorietà assoluta tra esso e quello della coeva sede della Gioventù Italiana del Littorio, rappresentando due facce, apparentemente opposte, dell’atteggiamento del regime verso quest’arte. Il tribunale non è l’ennesimo esempio di revival storicistico, una sorta di neo-greco che si aggiunge al neo-gotico, al neo-rinascimentale, ecc.. il classicismo cui si ispira è privo di connotati sentimentalistici come tutti gli altri neo- che sono accomunati dalla nostalgia per i “bei tempi andati”, volendo essere una riscoperta dell’essenzialità dell’architettura la quale è a-temporale e l’impiego del colonnato ne è un forte indicatore.

Le colonne sono uno degli elementi basilari della costruzione, il suo sostegno, e non un orpello come le modanature, i fregi di cui si fregiano i prospetti degli edifici neo-medioevali, altrimenti si tratterebbe di neo-classicismo, un ulteriore ismo. Un’operazione simile fa il modernismo che libera i fabbricati da qualsivoglia decorazione applicata alle murature esterne seguendo il precetto di uno dei pionieri del Movimento Moderno, Adolf Loos il quale sosteneva che l’ “ornamento è delitto”. Tutto per perseguire la chiarezza, la sincerità nell’espressione architettonica.

Il Fascismo similmente al resto dei totalitarismi del Novecento vuole formare l’ “uomo nuovo” e, quindi, riformare la società anche nel campo artistico e per crearlo da capo deve eliminare le sovrastrutture (le denominerà così il pensiero opposto, il marxismo) che in architettura possono essere identificate negli stilemi del passato. Il grado zero lo si ritrova nella civiltà latina e non era ipotizzabile altrimenti dato il culto imperante di Roma. La modernità (in un secondo momento) e il classicismo sono ambedue ammessi durante il Ventennio perché giudicati in linea con i valori perenni della civilizzazione romana.

La classicità che si afferma in quella fase storica (già prima con i Greci) va all’essenza dell’architettura, cosa che fa sia l’uno che l’altro. Meglio il classicismo ad ogni modo, per la carica simbolica che si porta dentro, prendi la ricerca di monumentalità insita nell’utilizzo di grossi blocchi di pietra da taglio nel basamento e nei largi cantonali e nell’adozione di una pilastrata gigante che si sovrappone alla cortina muraria. Il Moderno, invece, evoca la democrazia.

È talmente serrato e imponente tale colonnato che non si nota neanche l’asse di simmetria sul fronte secondario, principale per lunghezza, appena accennato dal portale che definiamo laterale, in lieve risalto rispetto al setto di chiusura del corpo di fabbrica. Siamo di fronte a colonne di carattere austero per via dell’impiego di capitelli dorici, i più elementari, peraltro i soli apparati decorativi presenti in questo edificio. Non c’è nessuna concessione alla leziosità e ciò lo rivela l’assenza di entasi nel fusto delle colonne, per precisione semicolonne. Pure compositivamente il manufatto è improntato alla severità con il suo involucro che costituisce un parallelepipedo perfetto con cui contrasta la sopraelevazione realizzata un paio di decenni orsono, quasi un’escrescenza che promana da questo volume puro. Ad accentuare la “gravità” della struttura vi è il colore uniforme che è quello dei conci lapidei impiegati.

 

Francesco Manfredi Selvaggi633 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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