La sfida fra i borghi è anche sui ristoranti
di Francesco Manfredi-Selvaggi
Le attività ristorative di qualità costituiscono un fiore all’occhiello per i centri abitati che li ospitano. Il prestigio di un comune passa pure per le sue trattorie che ne rappresentano un po’ la bandiera.
Una comunità desidera autorappresentarsi attraverso la qualità dell’insieme urbano che abita. Ci si nobilita, in qualche modo, se l’insediamento in cui si vive è ricco di monumenti, giardini comunali, musei, teatri e biblioteche; sono, quelli elencati, beni pubblici, ma vi sono anche a qualificare un agglomerato insediativo opere di iniziativa privata quali i palazzi residenziali di pregio, antichi e moderni (si sta pensando alla casa dell’architetto Coppola a Isernia e vale la pena citarla), tra cui la costruzione denominata grattacielo a Campobasso per la sua particolarissima tipologia annuncio dell’avvento dell’era contemporanea pure per la “capitale” della regione, cinema, palestre, hotel (per equilibrare gli esempi tra i maggiori centri molisani, si nomina ora l’albergo Corona a Termoli), caffè (il campobassano Lupacchioli e il “Bar della Provincia”, quella “pentra”, per limitarci ai due capoluoghi di provincia) fino ai ristoranti.
Per quanto riguarda questi ultimi è evidente che se essi danno tono ad un’entità urbanistica, non sono, comunque, in quanto a capacità di accrescimento dell’immagine cittadina alla pari di ben altre attrezzature civiche, non conta se pubbliche o private, come le strutture museali e teatrali non fosse che per le valenze simboliche associate a tali istituzioni le quali sono di natura culturale, mentre alle attività ristorative si attribuisce, per quanto riguarda il valore semantico, tutt’al più il significato di luogo dell’ospitalità nei confronti dei forestieri fornendo ad essi, appunto, ristoro o di momento della convivialità.
Non è la distinzione tra pubblico e privato, lo si è detto, ad incidere sul fatto che un elemento della configurazione urbana diventi un segno, nell’accezione che dà a questo termine la semiologia, e ciò lo dimostra il fatto (ancora lui) che non è considerato tale, cioè segno, un manufatto, nonostante sia di proprietà pubblica, di carattere strettamente funzionale, prendi il carcere o la stazione ferroviaria o il gasometro oppure i palazzi per gli uffici o la caserma dei carabinieri.
La loro presenza è necessaria e l’essere indispensabili li penalizza in quanto a riconoscimento sociale; non sono sentiti quali elementi distintivi di quel determinato centro perché stanno, o meglio devono stare, ovunque, niente, pertanto, di cui essere orgogliosi stando anche altrove, a meno che non abbiano una veste formale eccelsa, non semplicemente un aspetto dignitoso, il minimo sindacale. Invece, il resto delle dotazioni architettoniche della città, o, in scala ridotta, del borgo, sono il frutto della volontà della popolazione che vi è insediata, magari non una per una, bensì nel complesso mediante il piano regolatore in cui, comunque, non è prevista la categoria dei ristoranti.
Rifacendoci al pensiero del filosofo francese Foucault ci sono cose che vengono fatte per soddisfare i “bisogni” e altre per perseguire i “desideri”, ambedue decisive per l’esistenza di un uomo e perfino di un gatto, l’esemplificazione utilizzata dallo studioso, che gioca con il gomitolo di lana non per qualche utilità, ma per il puro piacere di farlo. Applicando tale teoria al ristorante vediamo che non è la fame l’unica molla che ci spinge a frequentarlo (il bisogno) poiché vi è nel contempo la voglia di gustare i piatti di quel ristoratore (il desiderio).
In assoluto è difficile stabilire quali siano i temi che solleticano l’amore proprio degli abitanti, se una cripta come a Trivento, un ospedale, a Agnone, una passeggiata lungo fiume, il Calderari a Boiano, un centenario circolo operaio a Carovilli e così via; le difficoltà sono tanto più forti se si tiene conto che le tematiche cambiano nel tempo essendosi aggiunti i belvedere, a Morrone, le pitture murali, a Civitacampomarano, l’allestimento museografico all’aperto, a Casalciprano, la land art, a Casacalenda e via dicendo.
Anche il ristorante, il quale è un qualcosa di cui andare fieri come si è precisato fin dall’inizio, è, in effetti, una comparsa nel panorama cittadino abbastanza recente, essendo in numero limitato in passato, la Trattoria Abruzzese a Campobasso, la Taverna Maresca a Isernia, Zia Filomena a Boiano e poco più. Lo sviluppo di iniziative di ristorazione si deve, da un lato, allo spirito di emulazione di quanto succedeva negli altri Comuni e, dal lato opposto che, in fin dei conti, è il medesimo lato, per quel sano campanilismo che mette in concorrenza fra di loro le varie località e che in tale riguardo costituisce un valore aggiunto per la crescita dei paesi. Paesi grandi e piccoli, nei secondi rappresentando accanto al castello, alla chiesa parrocchiale, alle mura urbiche e mancando gli spazi per lo spettacolo, i grand hotel, ecc., un fattore di prestigio non da poco.
La sfida è, comunque, totale non riguardando centri distinti per gruppi, ad esempio una suddivisione per dimensione demografica, nella convinzione che un ristorante pluristellato possa far scalare di rango, verso l’alto, quel nucleo abitativo, aumentarne i quarti di nobiltà. È il caso di Civitanova del Sannio, piace ricordare, un ricordo condiviso da tanti avventori provenienti dall’intero Molise che ha addirittura due attività ristorative di eccellenza.
Non è, ovviamente, solo l’esistenza del ristorante a far respirare un’aria cittadina aggiungendosi spesso, pur in aggregati insediativi minimi, il fioraio (ben due a Torella, uno di fronte all’altro), la pasticceria annessa di frequente ad un caffè (Fossalto, per dirne una), il negozio di oggettistica (Baranello, pur essendo assai vicino a Campobasso), tutti settori merceologici che fanno onore al borgo, ma la cui presenza non è proprio indispensabile, legati, cioè, al desiderio piuttosto che al bisogno. Essi, lo si ripete insieme al ristorante, conferiscono una qualche vivacità al paese rapportabile, fatte le debite proporzioni, a quella delle realtà urbane. L’aspirazione a voler assomigliare ad una città, seppure in sedicesimo, peraltro, vi è sempre stata e lo dimostra la realizzazione dei viali alberati, tipo quello di S. Massimo, dove gli esponenti della classe borghese potevano passeggiare similmente ai loro omologhi che risiedevano nelle metropoli.
Francesco Manfredi Selvaggi637 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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