Il mondo senza natura degli intellettuali no vax
di Piero Bevilacqua da scenariglobali.it
Più di una sensata obiezione hanno ricevuto le sortite anti- green pass, e sostanzialmente anti-medicalizzazione (antivaccini), di filosofi noti e prestigiosi come Giorgio Agamben e Massimo Cacciari. Ai quali si è inopinatamente aggiunto, insieme ad altri meno noti, un giurista di rango come Ugo Mattei, che ha alle spalle tante meritorie battaglie per la difesa dei beni pubblici in Italia. Credo tuttavia che lo spettro delle critiche da muovere a questi volenterosi difensori delle nostre libertà, debba essere più ampio e da fondare su una visione più profonda e più radicale. Lasciamo dunque da parte le incredibili enormità uscite dalla penna di Agamben, per il quale l’imposizione del green pass ci ridurrebbe alla medesima condizione degli ebrei sotto lo stivale del nazifascismo. Se vuol trovare ambiti di comparazione con quella funesta pagina della storia del ‘900, il filosofo ebreo Agamben li può trovare più verosimilmente a Gaza, dove il popolo palestinese giace ormai in condizione di apartheid, senza mai ricevere una parola di solidarietà dagli intellettuali ebrei italiani, neppure quando è bombardata da terra ,dal cielo e dal mare. Com’è accaduto nelle due guerre scatenate da Israele nel 2009 e nel 2014.
Quel che in realtà appare sorprendente e meritevole di essere messa in luce è la cultura di fondo, l’implicito “inconscio filosofico” su cui si reggono le posizioni di questi studiosi, che non differiscono in nulla rispetto alle vulgate popolari dei no vax di strada. La rivendicazione della libertà di spostamento e di movimento degli individui, al centro delle critiche e delle proteste, che sembra una trincea di lotta democratica, rivela in realtà una concezione squisitamente neoliberista, se non aristocratica, della società. Non a caso si tace del tutto il fatto che lo spostamento degli individui, in quanto esseri sociali, comporta relazioni e vicinanza con gli altri ed è quindi il vettore unico e universale della trasformazione di una malattia virale in una pandemia planetaria. Senza contatti il virus non si diffonde, così che la loro limitazione per intervento statale rappresenta una iniziativa di salute pubblica, mirata a difendere la comunità, anche contro il diritto solitario del singolo che vuole essere libero di contagiare gli altri. I filosofi potevano esaminare e lamentare i guasti di una società già devastata dall’individualismo edonistico della nostra epoca, cui si aggiunge, per dolorosa necessità, questa ulteriore spinta dall’alto alla disgregazione. Ma non lo fanno, figli poco filosofici della propria epoca, lamentano le restrizioni subite dall’individuo solitario.
Non meno rivelatore di un atteggiamento che non si discosta in nulla dalla psicologia corrente del comune uomo medio è la posizione critica e recriminatoria contro la scienza medica che si occupa di monitorare l’andamento della pandemia e che orienta il governo nelle sue strategie di contenimento. Si tratta di rivendicazioni che muoverebbero al riso per la loro superficiale ingenuità, ma che rivelano rimozioni più profonde. La continua protesta di Cacciari , come di tanta parte di italiani, per la scarsa informazione fornita dagli scienziati, per le loro comunicazioni contraddittorie, per gli effetti collaterali del vaccino non perfettamente indagati, ecc. rivelano in realtà l’ingenua pretesa della infallibilità della scienza, che vorrebbero simile a quella dei papi medievali. Forse non sanno i filosofi che anche nel mondo scientifico esistono diverse scuole, differenti approcci metodologici, molteplici esperienze sperimentali, che portano anche a conseguenze e risultati difformi? E davvero i filosofi possono, senza arrossire, rimproverare agli scienziati errori e contraddizioni, dimenticando che costoro hanno dovuto far fronte a un nemico sconosciuto, che nei primi mesi combattevamo a mani nude, e che in poco tempo ci hanno fornito conoscenza e strumenti efficaci di contenimento? Hanno costoro delle alternative più efficaci di lotta da offrirci?
Ma la ragione di fondo, la base “fliosofica” di quasi tutte queste posizioni di recriminazione contro le scelte istituzionali è con ogni evidenza quello che potrei definire l’arroganza antropocentrica di un pensiero che oggi appare invecchiato di fronte alle emergenze ambientali del nostro tempo. Costoro, in effetti, non riconoscono il virus, non riescono a concepire la superiorità e la potenza della natura, di qualcosa che sfugge al dominio dell’uomo e lo sovrasta. Rimuovono del tutto la sconfitta sul campo dell’uomo tecnologico, la cui illusoria infallibilità hanno introiettato come un dato naturale e pretendono perciò fanciullescamente che esso continui la sua marcia trionfale al centro del creato. Ma la rimozione del virus come un accidente transitorio è in questo caso la spia di un distacco profondo del pensiero filosofico, e in genere di quasi tutta la cultura italiana, dal mondo della natura, dagli sconvolgimenti inflittele dall’uomo. Il quale rimane ancora il signore di tutte le cose, secondo l’antica concezione giudaico-cristiana. Non si è compreso il salto epocale,, secondo cui, per dirla con Edgar Morin, << più l’uomo possiede la natura, più la natura lo possiede>> . Tutte le pandemie degli ultimi decenni provengono dagli allevamenti intensivi e in genere da un assoggettamento sempre più vasto della natura selvaggia alle economie umane. Non si pretende che i filosofi si occupino di zootecnica, ma forse qualche visione generale del mondo dovrebbero trarre dal fatto che miliardi di animali, sono oggi ammassati in giganteschi lager, imprigionati in gabbie, fatti vivere in condizioni di sofferenza inaudita. Su tale realtà, soprattutto fuori d’Italia, è fiorita una vasta letteratura, perfino una corrente di pensiero, quella dei diritti degli animali, (Animal rights). La nostra civiltà si regge sul dolore e sullo sterminio quotidiano di milioni di creature viventi, ma in Italia il fenomeno non viene degnato di alcuna considerazione.
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