Il restauratore e il castello logo
di Francesco Manfredi-Selvaggi
Sono due figure che si unificano nello stabilire le strategie per la salvaguardia delle opere fortificate. Ognuna con le proprie competenze si misura con gli interventi non appropriati dall’aggiunta di nuovi corpi per riprodurre parti mancanti falsificando il monumento alle superfetazioni speculative.
Non c’è voluto molto a garantire una fascia di rispetto per tutelare l’immagine del castello, quello della famiglia Gambatesa-Monforte, a Campobasso, nessun provvedimento vincolistico perché, nei fatti, era già, la zona circostante il maniero, un’area “vuota”. Storicamente l’intorno del fortilizio risulta sgombro da costruzioni e ciò per volontà del conte Cola di destinarlo a zona ad uso militare; egli fece demolire le case lì presenti provocando l’effetto di spaesamento delle chiese di S. Giorgio e di S. Bartolomeo le quali in quanto sedi parrocchiali dovevano essere al centro di quartieri abitativi. Nicola di Monforte dispose pure la costruzione di una cinta muraria di separazione tra la città e tale ambito asservito alla struttura castellana.
Il caso del capoluogo regionale di castello collocato in un sito a sé stante, distinto dall’abitato e, quindi, libero da manufatti edilizi all’intorno non è unico, si cita solamente quello di Roccamandolfi. A questo punto occorre puntualizzare che non è un merito l’isolare il monumento dal suo contesto come hanno fatto i Francesi per le loro cattedrali gotiche, gioielli “assoluti” che non devono subire contaminazioni esterne per cui viene fissato un raggio esteso fino a 500 metri entro il quale il terreno va svuotato perché si rischia l’opposto, la decontestualizzazione.
Per intenderci, il castello di Civita Superiore bello in sé, per i suoi due ampi cortili così luminosi è ancora più bello per l’essere inserito in un borgo tradizionale. Comunque, in urbanistica non sono ammessi i “buchi neri”, cioè parcelle di territorio prive di alcuna destinazione funzionale, i Piani Regolatori devono attribuire a ogni superficie un utilizzo preciso: la Collina Monforte si presta per l’elevata qualità dell’ambiente, che, peraltro, l’hanno portata ad avere il riconoscimento di Sito di Importanza Comunitaria, e per la sua contiguità con un agglomerato urbano popoloso, con limitate superfici a Verde Pubblico, alla designazione a Parco Territoriale dove svolgere attività ricreative all’aria aperta.
La distanza da un nucleo insediativo, però, può essere minima come accade al Castello Svevo, simbolo di Termoli il cui isolamento, almeno dal punto di vista semantico, è minacciato dal progetto della realizzazione del tunnel sotterraneo, al di sotto, appunto, della piazza S. Antonio il quale, certo, in sé stesso non è visibile, ma dal quale fuoriescono aperture, queste sì visibili, ovviamente, che vengono a fronteggiare il possente mastio federiciano. Sempre a proposito dello stare da soli delle architetture monumentali è da evitare l’atteggiamento, per così dire, francese del quale abbiamo un esempio eclatante nel Molise, a Civitacampomarano.
Qui venne abbattuta la schiera edificata che occultava, parzialmente, il castello angioino provenendo dalla statale Adriatica, la via di accesso al paese. Sarebbe stato più stimolante giungere al cospetto del castello, in qualche modo, all’improvviso nascosto fino a poco prima com’era alla vista (per capirci, fino all’altezza della dimora di Gabriele Pepe) dalla cortina edilizia di cui si è detto; in altri termini solamente superata la stessa in passato era possibile cogliere nella sua interezza questa importante opera architettonica.
È un modo di sentire, quello proposto, più moderno anche se più antico, è paradossale, perché ci deriva dai greci: essi amavano scoprire le meraviglie artistiche gradatamente e una testimonianza ne è la salita all’Acropoli con il Partenone che emerge di colpo alla vista dopo aver oltrepassato il tempietto di Atena Nike e i Propilei, focus dell’attenzione uno di seguito all’altro mentre si ascende e ciò favorisce la sorpresa finale. Passiamo ora dalle problematiche relative alla situazione ambientale attorno al castello a quelle riguardanti l’integrità fisica, non più la salvaguardia delle vedute che lo ricomprendono, del manufatto.
Anche qui la casistica è variegata e si va dai due estremi opposti, da un lato quello di erigere, progetto per fortuna non attuato, un volume ex-novo innestato sui resti di una rocca longobarda a Tufara nella piena consapevolezza dei progettisti che non si trattava della ricostruzione di alcunché, quindi di corpi ab origine presenti e ciò per farne un municipio, dall’altro lato quello, siamo a Carpinone, di riedificare una parte, volumetricamente non di poco conto, una intera ala della residenza dei Caldora di cui si presupponeva, sulla base di scarsi indizi, l’esistenza.
Il secondo degli episodi limite esposti è il più negativo riguardo alla tutela del bene storico in quanto viene a trattarsi di un’operazione di falsificazione, proporre una forma dell’immobile che forse non è mai esistita. Si possono rimettere in piedi porzioni della fabbrica antica, quando si hanno in mano dati certi sulla sua configurazione originaria, salvo permettere all’osservatore di distinguere i muri che con l’azione di restauro vengono alzati dal resto; ciò lo si ottiene apponendo contrassegni quali l’intercalazione di una lamiera tra i brandelli di muratura sopravvissuti e il paramento murario che ne costituisce la prosecuzione, tirato su nei lavori di ripristino come succede nel castello già citato di Civita Superiore, oppure un filare di mattoni interposto tra le pietre “vecchie”, il rudere, e quelle “nuove” dell’intervento di rifacimento e ciò avviene nel castello, anch’esso nominato in precedenza, di Roccamandolfi.
Secondo Michelangelo i due atteggiamenti possibili nella creazione di un’opera d’arte sono quelli, manipolando i materiali a disposizione, del “mettere” e del “togliere” ed egli nella fase terminale della sua vita optò per quest’ultimo togliendo dal masso roccioso, incavandolo, la “scorza” lapidea che teneva bloccata la figura, prigioniera, appunto i Prigioni, al suo interno: tale modo di operare dovrebbe essere adottato pure nel campo della conservazione del patrimonio artistico, in particolare architettonico quando si è di fronte a superfetazioni, togliendo, il vocabolo michelangiolesco, le porzioni incongrue del tipo dell’ “escrescenza” destinata a servizi sviluppatasi in un angolo del cortile del castello di S. Agapito.
Francesco Manfredi Selvaggi637 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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