Quando l’edificio ci mette la faccia
di Francesco Manfredi-Selvaggi
Il cemento armato ha ridotto le mura delle case a semplici tompagni avendo perso esse una funzione portante. Non si tratta comunque solo di una questione strutturale perché vi è un risvolto anche di tipo formale. Un muro spesso, quello del passato, con limitate bucature per evitare l’indebolirsi delle pareti comunica un senso di chiusura dell’abitazione rispetto al contesto circostante e nello stesso tempo di protezione. Oggi il muro può addirittura sparire perdendo così la funzione di trasmettere all’esterno, proprio come un volto lo stato psicologico, lo status della famiglia che vive in tale casa, le espressioni facciali (Ph. F. Morgillo-Palazzo Selvaggi a Vastogirardi)
Parleremo dell’interfaccia tra l’involucro e lo spazio interno, cioè delle facciate, avvertendo fin da adesso che tratteremo solo di alcuni casi, soffermandoci su ciò che è più ri-corrente nell’edilizia corrente. Iniziamo da quella tradizionale la quale rappresenta ancora una quota significativa dell’edificato molisano, tanto nelle realtà urbane, specie quelle minori dove i centri storici hanno ancora un peso quantitativo, cioè in termini di massa costruita, importante nell’insediamento abitativo quanto nelle aree rurali. Si è detto che intendiamo cominciare dalle architetture della tradizione, ma per far questo è opportuno effettuare una comparazione con le architetture della modernità perché è dal confronto che emergono le peculiarità.
Le strutture del passato erano realizzate in muratura portante mentre in tempi recenti compare la tecnica del cemento armato il cui impiego è ormai generalizzato da cui ne discende che i muri di un tempo erano spessi mentre quelli dell’epoca attuale sono di sezione ridotta essendosi ridotti a semplici tompagni, non hanno più una funzione statica. Le aperture aeroilluminanti nei primi sono molto più incavate che nei secondi proprio per la larghezza, trasversale, dei setti murari maggiore. Tale profondità delle bucature determina la creazione di zone d’ombra nei fronti coincidenti con la superficie delle finestre, tanti “buchi neri” in seno ai prospetti.
Si ha un effetto chiaroscurale dato dalla cortina edilizia su cui si riflette il sole che contrasta con le macchie scure delle porzioni della stessa forate per illuminare i vani. Le ombre sono più dense se l’infisso è posto sul lato interno del muro e non a filo esterno di parete. Tale disposizione delle finestrature, avanzata o arretrata rispetto alla “pellicola” terminale della facciata, è un’espressione della cultura materiale e nello stesso tempo contiene rimandi alla cultura architettonica tout court e si spiega subito perché. Non propriamente subito occorrendo una digressione riguardante un periodo dell’architettura italiana cruciale e si dice subito qual è.
È il medioevo il quale nel costruire ha avuto quale soggetto preferenziale le chiese. Nell’età paleocristiana il muro era inteso quale mero involucro dell’ambiente di culto, non possedeva alcuna corporeità, negli spazi sacri fungeva da supporto delle immagini religiose, non aveva nessuna valenza in sé stesso, alcun significato a sé stante, non esprimeva alcunché alla stregua di un semplice pannello. Il Romanico è il passaggio successivo, esso costituisce una tappa decisiva nel percorso che porterà all’Umanesimo contrassegnato dalla ripresa dell’interesse, in antecedenza concentrato sulle cose celesti, per le cose terrene.
Si abbandonano, dunque, i modi artistici della fase precedente, cambia l’approccio con il muro. Conseguenza ne è che i portali delle cattedrali divengono profondamente strombati, vedi quella di Larino, le pareti esterne vengono animate con archeggiature pensili che le delimitano in alto, vedi S. Maria della Strada o il duomo di Guardialfiera, le finestre si arricchiscono di cornici, ma di questo discuteremo dopo. Il muro così non è più qualcosa di simile ad un cartone di imballaggio che fodera l’edificio, adesso vive di vita propria. Finisce qui l’ampia sezione dedicata all’illustrazione della formazione di una nuova concezione del muro la quale diventa un modo di sentire diffuso che arriva a permeare oltre la produzione architettonica colta anche quella minore.
Il muro perforato o adornato da modanature mette in mostra, esibisce in qualche maniera con ostentazione la sua consistenza fisica, appare robusto non un semplice diaframma. Ambedue, le cavità e gli elementi in rilievo in corrispondenza delle finestrature attribuiscono un senso di plasticità alla parete la quale non si riduce più, come in passato, ad essere simile ad un velario. Gli stipiti, il davanzale, il timpano in sporgenza, le cose di cui ci interesseremo ora, che delimitano le bucature hanno una ragione funzionale e contemporaneamente una estetica rendendo maggiormente significativa l’immagine del prospetto; appartengono ad un repertorio non più in voga, sostituite da elementari ornie, eppure meriterebbero una rivalutazione (a scanso di equivoci non si sta invocando un ritorno agli stili classici).
Attraverso tale apparato linguistico si possono caratterizzare oltremodo le facciate il cui aspetto è molte volte scialbo, insignificante. L’impiego di tali membrature sagomate presuppone che la muratura sia intonacata e questo, quello dell’intonaco, è l’ultimo punto che si vuole affrontare nella presente disamina intorno alle facciate. La tecnica dell’intonaco a stucco (che è, si badi bene, un ringrosso del muro e non si aggiunge altro) consente l’applicazione di pregevoli decorazioni sui prospetti, vedi il fronte principale del Palazzo della Provincia campobassana che ha una forma barocca.
Il risvolto negativo dell’intonacatura è l’occultamento della pietra, il materiale da costruzione principe qui da noi. Il Molise è assai ricco di pietre naturali, dal calcare, il più diffuso, al travertino (Isernia e San Vincenzo al Volturno), all’arenaria (Alto Molise) e così via e il nasconderle sovrapponendo al muro uno strato d’intonaco significa annullare un tratto distintivo dell’identità regionale, o meglio delle tante identità sub-regionali. Non è solo una questione di conservazione di connotati identitari perché c’entra pure la qualità estetica dei conci lapidei nostrani.
Francesco Manfredi Selvaggi637 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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