Le elezioni da cardiopalma/Ma chi vince vince l’America politica è malata
Verso le 5 del mattino del 6 novembre si saprà se Kamala Harris (60 anni) sarà la prima donna Presidente degli Stati Uniti o se Donald Trump (73 anni) tornerà di nuovo alla Casa Bianca.
Kamala, figlia di un’indiana e di un giamaicano, conta sulle nuove generazioni, sui neri, sul mondo culturale, sullo star system trascinato da Taylor Swift e Beyoncé, da dozzine di altre star e sopratutto sul fattore donne. Julia Roberts raccomanda: “Non votate come i vostri mariti”, quasi una lotta tra i sessi.
L’ex attore e governatore Schwarzenegger disprezza Trump (“ha già fatto quattro anni di cazzate”) e voterà per la Harris “da americano prima che repubblicano». Molti sperano che Kamala vincerà perché parla di bisogni delle persone, di assistenza per l’infanzia, per i piccoli imprenditori e per l’acquisto di una casa. Ma sarà davvero dura.
Trump ha invece un linguaggio, divisivo, condito di misoginia, razzismo e di smaccato populismo (si è travestito da cuciniere che frigge e distribuisce patatine e da autista di camion della spazzatura). Ha decine di guai con la giustizia, nei comizi urla “spazzeremo i liberal” e la sua vera forza è l’America profonda, quella del primatismo bianco pronto a manomettere una democrazia stanca, facile a farsi travolgere da una svolta fascista. C’è perfino chi teme un’America post democratica, protezionista e isolazionista. Trump è infatti una minaccia. Afferma che i suoi nemici politici la pagheranno e tra questi c’è anche l’Europa.
Per i contendenti il problema è dunque di conquistare Stati che fanno la differenza (Arizona, Nevada, Wisconsin, Michigan, Georgia, Pennsylvania, North Carolina). Secondo l’Economist potrebbe uscire un 50 a 50 per cento che scombinerebbe tutto.
C’è poi da calcolare che se Trump vince, per insediarsi dovrà attendere due mesi e mezzo che non saranno né sereni né produttivi. E se invece dovesse perdere non riconoscerà la sconfitta e saranno grossi guai sulla tenuta della democrazia.
Sta di fatto che attualmente l’America tentenna tra paura e ottimismo, tra la democrazia e il diavolo. E in un momento mai così turbolento che può cambiare gli equilibri del mondo, un’America malata è da brivido.
Giuseppe Tabasso362 Posts
(Campobasso 1926) ha due figli, un nipotino e una moglie bojanese, sempre la stessa dal 1955. Da pianista dilettante formò una band con Fred Bongusto. A suo padre Lino, musicista, è dedicata una strada di Campobasso. Il Molise è la sua Heimat. “Abito a Roma - dice - ma vivo in Molise”. Laureato in lingua e letteratura inglese, è giornalista professionista dal 1964. Ha iniziato in vari quotidiani e periodici (Paese sera, La Repubblica d’Italia, Annabella, Gente, L’Europeo, Radiocorriere). Inviato di politica estera per il GR3 della RAI, ha lavorato a Strasburgo e Bruxelles, a New York presso la Rai Corporation e a Londra e Colonia per le sezioni italiane della BBC e della Deutschland Funk. Pubblicazioni: Il settimanale con Nello Ajello (Ediz. Accademia, Roma 1978); Facciamo un giornale (Edizioni Tuttoscuola, Roma 2001); Il Molise, che farne? (Ed. Cultura & Sport, Campobasso 1996); per le Edizioni Bene Comune; Post Scriptum, Prediche di un molisano inutile ( 2006); Gaetano Scardocchia, La vita e gli scritti di un grande giornalista (2008); Moliseskine (2016). In corso di pubblicazione Fare un giornale, diventare giornalisti, Manuale di giornalismo per studenti, insegnanti e apprendisti comunicatori.
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