Il centenario di Antonio Pettinicchi

Un ricordo di Giuseppe Tabasso che fu suo compagno di scuola

Aveva quasi un anno più di me, preferiva gli ultimi banchi, era introverso, aspettava il giorno e l’ora di disegno per schizzare dipinti dietro la lavagna che ribaltava poi all’arrivo del suo idolo, il prof Amedeo Trivisonno, per catturare i suoi giudizi e stupefare noi scarabocchioni.

Trascorsero anni. Ognuno per la sua strada, ma anche da lontano la sua storia m’incuriosiva sempre più. Così mezzo secolo dopo andai a cercarlo e ritrovarlo.

Scoprii che nell’autunno del 1963 Pettinicchi appese al chiodo pennelli, cavalletti e tavolozza e smise drasticamente di dipingere. Aveva 38 anni, era nel pieno della sua potenza espressiva, l’uso dei colori non aveva alcun segreto per lui. Poteva dipingere tutto: decise di non fare più nulla.

Chi gli stava vicino gli diede poco peso, pensarono che volesse “ricaricare le batterie”, che fosse una delle sue “mattane” o una fase di stanca e perfino di pigrizia. Si trattava invece di una specie di karakiri artistico, una intransigenza esistenziale. Un Pettinicchi versus Pettinicchi.

La sua “morte” apparente durò fino al 1973, dieci lunghi anni, durante i quali il professor Pettinicchi sopravvisse a sé stesso insegnando disegno e storia dell’arte proprio in quell’Istituto magistrale di Campobasso dove negli anni ’40 quello studente di estrazione contadina, ebbe Trivisonno come suo primo precettore.

Poi la fulminante riapparizione, ma quello che riappare sulla scena artistica molisana è un uomo annichilito, lacerato, “maledetto”. I suoi dipinti sono urli di rabbia, di passione, di amore e orrore del presente, un tormento senza estasi.

I miei quadri – mi dice quando vado a trovarlo – sono tragedia, luce e odori. E di tragedia è atrocemente segnata la sua vita privata, familiare, una nicchia oscura dove a nessuno è consentito far capolino ma che lui, artista incapace di understatement e metafore, denuda nei suoi dipinti.

Nel suo terribile “Autoriratto in un paesaggio nevoso” si esibisce addirittura “sviscerato”, lui stesso si definisce personaggio “squartato”, i suoi occhi azzurrissimi non si rifletteranno più nei suoi cieli tempestosi, i suoi paesaggi sono incubi dipinti con un bisturi che si rincorrono tra frane e crepacci.

Castellino sul Biferno è il suo spettrale paese simbolo, più volte ricorrente nel suoi quadri. In uno di essi    “La banda suona la Vº di Mahler a Castellino” c’è un altro suo mito ossessivo, appunto la Sinfonia    nº 5 di Gustav Mahler ll cui primo movimento ha, non a caso, un tempo di marcia funebre.

“L’arte non è rassicurante – mi dice – perché dovrebbe esserlo la mia?” Gli chiedo se è credete. “Purtroppo” risponde. Si trova a suo agio solo coin la sua gente, è diffidente con i “borghesi”. Anche di me, suo sparito compagno di scuola. Mi riceve nel suo “studio” campobassano, squallida stanzetta dove non esiste nemmeno una sedia, dove lui stesso dipinge all’impiedi ossessionato dall’idea che vi si possa “fare salotto”.

Ha bandito nature morte e fiori, ma riconosce che anche un fiore può essere un oggetto drammatico.

Ha illustrato le tre cantiche di Dante, il suo lavoro forse più impegnativo. Nel Paradiso ci mette, insieme a Van Gogh e naturalmente Mahler, ci mette i suoi contadini e la disperazione di un suo figlio morto. Mentre nell’Inferno non ci sono contadini, ma solo borghesi, burocrati e maneggioni.

Per capire Trivisonno si deve conoscere Giotto e Michelangelo, per capire Marotta si deve amare De Chirico e Bernini, non si capisce Pettinicchi se non si capisce il Molise. Tutti i pittori nostrani hanno raccontato il Molise al mondo, Pettinicchi ha raccontato (con rabbia) il mondo al Molise. Certe sue “Guerniche” come il bombardamento di Isernia e la strage di Fornelli hanno un valore universale.

Gli chiesi se un giorno approdasse sulle sponde della rassegnazione. Antonio Pettinicchi si strinse nelle spalle e abbozzò un sorriso-ghigno come per togliere ogni illusione e dire “ma che ne sapete del dolore”-

Giuseppe Tabasso375 Posts

(Campobasso 1926) ha due figli, un nipotino e una moglie bojanese, sempre la stessa dal 1955. Da pianista dilettante formò una band con Fred Bongusto. A suo padre Lino, musicista, è dedicata una strada di Campobasso. Il Molise è la sua Heimat. “Abito a Roma - dice - ma vivo in Molise”. Laureato in lingua e letteratura inglese, è giornalista professionista dal 1964. Ha iniziato in vari quotidiani e periodici (Paese sera, La Repubblica d’Italia, Annabella, Gente, L’Europeo, Radiocorriere). Inviato di politica estera per il GR3 della RAI, ha lavorato a Strasburgo e Bruxelles, a New York presso la Rai Corporation e a Londra e Colonia per le sezioni italiane della BBC e della Deutschland Funk. Pubblicazioni: Il settimanale con Nello Ajello (Ediz. Accademia, Roma 1978); Facciamo un giornale (Edizioni Tuttoscuola, Roma 2001); Il Molise, che farne? (Ed. Cultura & Sport, Campobasso 1996); per le Edizioni Bene Comune; Post Scriptum, Prediche di un molisano inutile ( 2006); Gaetano Scardocchia, La vita e gli scritti di un grande giornalista (2008); Moliseskine (2016). In corso di pubblicazione Fare un giornale, diventare giornalisti, Manuale di giornalismo per studenti, insegnanti e apprendisti comunicatori.

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