Palazzo subordinato alla piazza o viceversa? Un caso a S. Massimo

di Francesco Manfredi-Selvaggi
L’ideatore probabile del palazzo nonché suo possessore fu il canonico Gioia; egli operò la ricostruzione del/dei precedente/precedenti stabile/stabili diruto/diruti a seguito del terremoto del 1805. Proprio in questo posto, in un preesistente immobile, morì il famoso pittore Raffaele Gioia suo congiunto a seguito di quell’evento (Ph. F. Morgillo-Il Palazzo turrito Gioia Piccirilli)
Il palazzo Gioia poi Piccirilli rientra nella tipologia classica degli edifici signorili ottocenteschi, ma ciò non vuol dire essere la riproduzione esatta di un modello architettonico codificato in maniera stringente che non esiste. All’interno di questa categoria di costruzioni le quali hanno in comune la forma a blocco, cioè dei volumi tendenzialmente cubici, si ritrovano numerose varianti ed è utile per capire la peculiarità del palazzo in esame e con essa la sua originalità il confronto, per non spostarsi più lontano, con il contiguo palazzo Tortorelli. Due palazzi vicini ci sarebbe stato da aspettarsi che fossero dal punto di vista formale simili e, invece, non è così pur essendo volumetricamente di dimensioni rapportabili.
La differenza più rilevante è nell’androne che nel palazzo Tortorelli per via della larghezza dell’entrata e del fatto che è in piano con la piazza oltre che per la notevole altezza equivalente a un piano e mezzo (a livello superiore ai due lati del vano di ingresso è ricavato un mezzanino) permette di ospitarvi una carrozza; in quello in origine della famiglia Gioia si approssima all’atrio. Entrambi hanno un consistente sviluppo in lunghezza ed entrambi hanno in conclusione la scala che porta al piano superiore. Nel palazzo Tortorelli tale vano che succede al varco di accesso può essere classificato quale locale di servizio perché, lo si è detto, disponibile al rimessaggio di carrozza o calesse.
Nel palazzo Gioia, invece, l’atrio è parte integrante dell’abitazione, anzi è l’asse ordinatore delle stanze poste al livello terraneo tra le quali ci sta la cucina eccezionalmente ben conservata; ciò nonostante che la sua pavimentazione, in lastre di pietra, sia la stessa dei cortili e proprio così si chiamano gli atri, sono due, del palazzo Selvaggi posto sempre su via S. Rocco pochi numeri civici più in là. In quest’ultimo quello che sta sopra è, in realtà, un vestibolo, in quanto ha funzione di smistamento dello spazio domestico, più appropriata è la parola cortile, coperto, non aperto, per quello di sotto poiché è a servizio degli ambienti di servizio (stalla, fondaco, cantina).
Ora lasciamo le comparazioni e da adesso in avanti l’oggetto esclusivo dell’analisi sarà il palazzo Gioia senza far riferimento ad altri casi. Riprendiamo da dove ci eravamo fermati nella sua descrizione e cioè dalla scala. Nel palazzo Gioia essa è un autentico scalone per la sua monumentalità data dalla articolazione in tre rampe, non le due consuete, articolate secondo lo schema delle scale a T. Tale scala, è evidente, non risponde solo ad esigenze di funzionalità, ma pure di natura estetica, è considerata un’opportunità architettonica per “magnificare” la residenza. Si è detto in precedenza che essa è in fondo all’androne, un maxicorridoio, e con una veduta d’infilata può essere scorta dall’esterno e ammirata, l’androne fungendo da cannocchiale visivo.
Un canale prospettico che penetra da un fronte e raggiunge quello opposto partendo dalla piazzetta antistante al portone. La scala è il traguardo degli sguardi che si volgono verso la facciata della “casa palaziata” che è il fondale del predetto slargo, sempre che, come succedeva un tempo, il portone rimanga aperto per gran parte del giorno. L’insieme atrio-scala è l’elemento che organizza l’interno di questa architettura anche perché ne è al centro. Il portone da cui prende avvio è centrale, conseguentemente, pure alla facciata e a sottolineare il suo ruolo preminente nella composizione architettonica è il bel portale che lo adorna.
Se l’asta ideale che congiunge atrio e scala partendo, lo si rimarca, dal portone, è il filo conduttore per la comprensione della planimetria, perciò in senso orizzontale, il portone è partecipe nel medesimo tempo dell’asse verticale che si individua nel fronte. Esso fa tutt’uno con il balcone, l’apertura aeroilluminante di maggior rilievo. Tale coppia, portone e balcone, ha centralità nella facciata, ma non nel largo urbano cui la faccia principale del palazzo si affaccia, si coglie una certa discrasia. È contraddittoria o la disposizione dell’edificio o quella della piccola piazza, ciò non può che essere il frutto di una concezione autonoma urbanistica o, all’opposto, architettonica, non sono state pensate insieme, certamente, la piazzetta e il palazzo.
Poiché di sicuro l’impianto insediativo viene prima temporalmente dell’edificato al contorno è da ritenere che il progettista di quest’ultimo ricercò l’autonomia dal contesto del palazzo da edificarsi, non curandosi così della sua integrazione con la struttura urbanistica, se non che mediante l’allineamento con via S. Rocco (nell’indirizzario cittadino è inserito in questa via). Non è stato, comunque, un grave danno per l’immagine del largo, nella toponomastica civica innominato, il non essere incentrato pienamente sul palazzo Gioia, quella della piazzetta è un’immagine ben definita di per sé; la sua forma a C che racchiude lo spazio circostante è una “figura” conclusa.
Addirittura è meglio che non vi sia un fatto dominante nella cortina edilizia al contorno, in modo che lo slargo si configuri quale ambiente a sé stante, l’involucro che lo racchiude non dominato da un episodio emergente. Se così fosse stato la piazzetta sarebbe stata relegata a puro sfondo di questa emergenza, un ruolo ancellare alla stregua di una corte esterna, che nel caso delle chiese, per intenderci, si chiama sagrato. La migliore forma di convivenza è, di norma, l’indipendenza reciproca e con ciò non si vuole dire che non vi sia un vantaggio nello stare insieme per ciascuna delle parti che costituiscono il consorzio: il palazzo con il suo pregevole portone abbellisce il luogo la cui spaziosità lo rende percepibile quasi per intero.

Francesco Manfredi Selvaggi666 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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