Problema della disoccupazione: cause ed ipotesi di soluzione
Il tema della disoccupazione, giovanile o adulta, costituisce un elemento strutturale dell’economia di mercato che si è accentuato sempre più nel tempo soprattutto quando un neoliberismo davvero selvaggio ha posto al centro dei processi economici non i concetti di condivisione o di solidarietà, ma quelli del profitto e della convenienza egoistica individuale.
Oggi in Italia l’Istat ci dice che la disoccupazione giovanile interessa tre milioni di soggetti ed è dell’ordine del 40%, ma sta crescendo anche quella adulta a causa di una recessione rispetto alla quale non si riescono a trovare vie di crescita nei diversi settori dell’economia che paiono letteralmente ingessati sul piano dello sviluppo produttivo. Ovviamente il fenomeno ha risvolti ancora più problematici nel Mezzogiorno nel quale è ripresa l’emigrazione di giovani che non riescono più a trovare lavoro nelle realtà in cui sono nati. Prima di delineare i sistemi di contrasto al fenomeno presenti all’orizzonte ci sembra opportuno indicare almeno schematicamente le cause che lo determinano.
Intanto, il capitalismo non ha mai voluto una redistribuzione equa del lavoro e del reddito considerando la disoccupazione un bacino di riserva utile a contrastare richieste di salari alti da parte dei lavoratori; d’altra parte il movimento operaio non è riuscito a incidere sul diritto alla piena occupazione per tutti pure ventilato nell’autunno caldo del 1968 e garantito così chiaramente nel primo comma dell’art. 4 della Costituzione Italiana e nell’intero Titolo III della Parte I. In tutti i Paesi occidentali la relazione tra produttività, crescita ed occupazione è stata virtuosa fino agli anni ’70 del secolo scorso; poi si è incrinata per il rallentamento del prodotto nazionale e per il processo di globalizzazione che ha visto l’emergere sia della produzione snella e tecnologicamente avanzata come quella del Giappone che della concorrenza industriale deregolamentata di Paesi asiatici o del sud; in tal modo le esportazioni dal terzo mondo, che nel 1970 erano appena del 5%, hanno invaso il pianeta in considerazione soprattutto di un costo del lavoro che ad esempio in Cina, India ed in altre nazioni asiatiche è almeno venti volte inferiore a quello tedesco.
La conseguente delocalizzazione della produzione penalizza nell’occupazione aree territoriali dove maggiore è il costo del lavoro e le imposizioni fiscali relative. In Italia una dinamica salariale sempre più compressa ha generato una forte riduzione della domanda di beni e servizi e di conseguenza una diminuzione della produzione e dell’occupazione soprattutto nei settori più tradizionali e meno avanzati tecnologicamente. L’automazione ha prodotto per ovvie ragioni la massima diffusione della disoccupazione. Esiste poi una fuga di capitali dagli investimenti e dalla ricerca di innovazione tecnologica in ragione del fatto che i sistemi borsistici o la gestione di servizi del tutto amorali e spesso perfino illegali consentono alla plutocrazia finanziaria arricchimenti impensabili e dunque preferibili a quelli di un impiego del denaro nella produzione.
Non ultima tra le cause della disoccupazione è quella relativa ad una redistribuzione ineguale e clientelare del lavoro esistente, tra l’altro lontana perfino da logiche di meritocrazia e legata a reti relazionali di potere politico con una forte discriminazione di chi rispetto a tale potere rimane critico o estraneo. Tollerare infine scandalosi privilegi salariali, evasione fiscale, il doppio lavoro, quello in nero o straordinario significa in ogni caso impedire che si esca in particolar modo dalla disoccupazione giovanile e comunque dalla disuguaglianza sociale in atto. Le ipotesi avanzate da politici ed economisti per trovare soluzioni al problema dell’occupazione sono diverse e partono da visioni molto articolate della società. Sappiamo tutti che la flessibilità e la liberalizzazione dei contratti voluta dal governo Renzi con il Job Act ha solo prodotto la progressiva eliminazione delle regole di tutela della sicurezza sul lavoro e l’indebolimento del potere dei sindacati senza generare alcun miglioramento reale dell’occupazione resa del tutto provvisoria e precaria.
I cosiddetti redditi di cittadinanza, di inclusione o di sussistenza, siano essi di tipo universalistico o legati a particolari condizioni di bisogno, oltre che molto costosi e conseguentemente poco sostenibili, sono sempre legati alle vecchie logiche dell’assistenzialismo degli ammortizzatori sociali e rappresentano a nostro avviso palliativi capaci di drogare il mercato del lavoro e di non affrontare in modo adeguato il tema della dignità della persona e del suo diritto al lavoro più che ad un salario umiliante di sussistenza. D’altronde, piuttosto che fare assistenza, non è meglio che lo Stato paghi la gente impegnandola in lavori socialmente utili? Si tratta di proposte che possono generare immediato consenso politico, mentre abbiamo bisogno di soluzioni dal forte impatto sistemico e strutturale che all’orizzonte mancano anche a causa della subordinazione della politica all’oligarchia finanziaria. Noi crediamo che l’eliminazione della disoccupazione possa anche partire da una redistribuzione del lavoro e della ricchezza secondo i criteri della staffetta generazionale già ventilata durante il governo di Enrico Letta o da una riduzione dell’orario di lavoro degli occupati proposta dal sociologo Domenico De Masi nel suo recente saggio “Lavorare gratis, lavorare tutti”, ma ci sembra semplicistico e molto conflittuale porlo attraverso le strategie suggerite.
È nostra convinzione che al principio di un’equa redistribuzione del lavoro debbano accompagnarsi metodi attuativi razionali, solidali e scientificamente praticabili. Ci pare inoltre che il lavoro non abbia bisogno solo di essere garantito, ma soprattutto creato e per questo pensiamo si debbano seguire provvedimenti legislativi ed economici indispensabili che di seguito indichiamo schematicamente: eliminare l’evasione fiscale con tecniche di deterrenza per migliorare il bilancio dello Stato e diminuire le imposte sui redditi bassi sostenendo la domanda di beni e servizi; attivare misure di decontribuzione del lavoro e di sgravi fiscali alle imprese che assumono con contratti capaci di dare tutele e sicurezza al lavoratore ed ottenuti attraverso il taglio degli sprechi e dei privilegi; tassare in modo più elevato le rendite finanziarie per incentivare lo spostamento di capitali negli investimenti e nell’innovazione; investire in grandi infrastrutture pubbliche che non sono quelle ad alta intensità di cemento o penalizzanti il territorio, ma utili a migliorare l’economia della conoscenza e la qualità della vita; diminuire l’età pensionabile equilibrando nel reddito il sistema pensionistico; sviluppare la formazione qualificata dei lavoratori per orientarli ad un’alta specializzazione; promuovere l’economia del terzo settore soprattutto nell’offerta dei servizi sociali; innovare la produzione di beni e servizi sul piano qualitativo orientandosi verso quelli di eccellenza.
Ecco quanto possono fare e finora non hanno fatto i governi nazionali. In ogni caso la piena occupazione si realizza solo se la Comunità Economica Europea la finanzia nella convinzione che il lavoro è un diritto da garantire per porlo a fondamento della libertà e della dignità della persona.
Fonte: Umberto Berardo
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