La lingua dei corsi universitari
di Umberto Berardo
Il senato accademico del Politecnico di Milano, avvalendosi di norme contenute nella legge n. 240 del 2010, deliberava già nel 2012 di tenere, a partire dal 2014, corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca esclusivamente in lingua inglese.
Alcuni docenti ricorrenti dello stesso ateneo facevano da subito rilevare che tale decisione era in chiaro contrasto con il principio costituzionale di ufficialità della lingua italiana, ma anche con evidenti ragioni costituzionali di ragionevolezza, proporzionalità, uguaglianza e discriminazione di docenti ed allievi prevedendo per gli stessi barriere linguistiche di accesso lesive del diritto allo studio, della parità di accesso all’istruzione fino ai suoi gradi più alti e della libertà d’insegnamento senza tra l’altro prevedere corsi interni di sostegno per gli studenti e di formazione ed aggiornamento per i docenti. Il Tar in prima istanza annullava il provvedimento del Politecnico, mentre la Consulta in una sentenza del febbraio 2017 sembrava più possibilista pur ribadendo la centralità della lingua italiana e dunque corsi anche, ma non esclusivamente in lingua straniera. Il Consiglio di Stato ha ora deciso in via definitiva che al Politecnico di Milano non sarà possibile tenere corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca unicamente in lingua inglese, ma che a corsi in questa lingua debbano essere affiancati quelli in italiano. La finalità di quest’ultima sentenza è a nostro avviso quella d’impedire che il plurilinguismo della società globalizzata, come nuovo sistema di trasmissione e comunicazione del sapere, finisca per costringere la lingua italiana in una posizione di marginalità con il pericolo che nel tempo essa possa diventare come altre una lingua minoritaria o addirittura morta.
La sentenza del Consiglio di Stato sta suscitando un dibattito tra le posizioni di quelli che difendono la decisione del Politecnico di Milano, attento ad internazionalizzare l’università, ad avanzarne la competitività e ad attrarre studenti stranieri e quanti, come l’Accademia della Crusca, al contrario cantano vittoria per la difesa della centralità della lingua italiana che, come ha sottolineato con forza Michele Ainis qualche tempo fa su Repubblica, ” costituisce un bene culturale in sé”. Se l’uso esclusivo di una lingua straniera diventa un limite alle modalità di esercizio della libertà d’insegnamento ed un ostacolo per l’accesso degli studenti ai corsi universitari è evidente a tutti che si pone in contrasto con gli articoli 33 e 34 della Costituzione Italiana. Tra l’altro occorre ricordare, come fa rilevare il giurista Andrea Cardone, docente di Istituzioni di Diritto Pubblico all’Università di Firenze, che l’ordinamento giuridico in Italia prevede come unico titolo di accesso all’università il conseguimento di un diploma di scuola secondaria superione e che l’art. 271 del regio decreto n. 1592 del 1933 stabilisce che “la lingua italiana è la lingua ufficiale dell’insegnamento e degli esami in tutti gli stabilimenti universitari”; dunque ogni altro ostacolo limitativo per lo studente sarebbe chiaramente in contrasto con l’art. 34 della Costituzione Inoltre occorre riflettere in ogni caso sul fatto che la certificazione di lingua inglese è affidata ad enti privati esterni all’università, mentre tale acquisizione dovrebbe essere garantita a livello pubblico all’interno degli atenei per evitare che la stessa possa diventare un business. C’è poi un problema allo stesso tempo di carattere scientifico e didattico.
L’elaborazione del pensiero sul piano della ricerca presenta indubbiamente maggiore spontaneità, incisività e creatività quando avviene nella lingua madre, perché la maggiore padronanza lessicale, morfologica e sintattica sicuramente favorisce l’estro e la genialità nell’indagine in ogni sistema disciplinare. A ciò occorre aggiungere che per qualsiasi ricercatore appartenente ad una tradizione storica e linguistica taluni concetti hanno un significato diverso da quello che assumono in un altra lingua. Da questo punto di vista è comprensibile l’uso di una lingua straniera ove questa possa essere funzionale a veicolare la trasmissione di contenuti culturali in sede internazionale e dunque come mezzo di comunicazione piuttosto che di ricerca dove invece a nostro avviso va lasciata la lingua nazionale; in tale direzione tuttavia occorre oggi parlare di plurilinguismo e non certo solo dell’utilizzo della lingua inglese. Nella civiltà umana è sempre esistita una lingua veicolare per la trasmissione della cultura a livello globale, ma sul piano locale non bisogna mai dimenticare che la comunicazione dei dati culturali avviene nella lingua nazionale che è spesso l’unica a disposizione della stragrande maggioranza della popolazione. Questo permette allo stesso tempo di creare una società della conoscenza democratica e sempre più allargata che impedisca però per chiunque ogni preclusione di natura linguistica per una partecipazione effettiva alla vita della collettività. Aprirsi al plurilinguismo allora è importante purché non implichi emarginazioni e subordinazioni di alcun tipo.
Nessuno penso potrà mai dimenticare che grandi uomini di cultura come Dante o Galileo, per fare solo qualche nome, scrivevano in latino per trasmettere le loro idee sul piano scientifico, ma lo facevano in italiano quando occorreva rivolgersi in generale al popolo. Non una lingua egemone allora, ma il plurilinguismo è il veicolo di una cultura che voglia mantenere contestualmente le connotazioni del globale e del locale allo stesso tempo.
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