Ma quale “casta”: abbiamo fatto politica senza una lira

Italo Di Sabato, già dirigente di Democrazia Proletaria e Rifondazione Comunista, oggi candidato alla camera per Potere al Popolo
«Ho fatto il funzionario politico e stavo mesi senza prendere stipendio, mentre oggi i più puritani si fanno rimborsare di tutto». La politica, un tempo, era una cosa seria, sembra voler dire Italo Di Sabato. Militante dal 1981, quando si iscrisse a Democrazia Proletaria, l’ex consigliere regionale in Molise per di Rifondazione Comunista, oggi coordinatore dell’Osservatorio Repressione e candidato alla camera per Potere al popolo racconta la sua vita nel partito, fatta di lotta e impegno. E condanna il rancore, unico protagonista della scena contemporanea. «Manca conflitto sociale e ogni lotta viene criminalizzata e repressa».

Come era la politica all’epoca dei partiti di massa?
Ai tempi nostri in Democrazia Proletaria, ma anche con Rifondazione, gli eletti erano obbligati a versare il 60 per cento di tutti degli emolumenti al partito. Lo sentivamo come un dovere per finanziare uno strumento che aveva finalità sociali e obiettivi generali. Non voglio fare polemica, ma i rimborsi oggi vengono chiesti per le spese più bizzarre. Quelli che si definiscono più puritani campano con molte più risorse di quelle che potevano disporre noi. Se ci siamo ridotti a parlare di questi argomenti vuol dire che siamo al degrado e che la politica non incide per nulla sui processi economici, sui destini individuali e collettivi.

Come funzionava a Dp e nel Prc?
Vivevamo delle quote degli eletti, delle sottoscrizioni, delle risorse del tesseramento e solo in parte di finanziamento pubblico. Come funzionari politici spesso ci dovevamo accontentare di acconti e la nostra situazione economica non è stata mai straordinaria. Abbiamo spesso sofferto, ma eravamo felici perché spinti dalla passione politica.

Come utilizzava i soldi il partito?
Per produrre propaganda, pagare le sedi, le iniziative, le attività pubbliche. Servivano per organizzare le lotte, ma anche seminari e convegni, con lo scopo di elevare l’attività culturale non solo del partito, ma di tutti. I partiti di massa, finché sono esistiti, hanno determinato il processo di crescita culturale del Paese, avevano una funzione culturale grandissima. Ma oggi esistono solo gli individui. Noi militanti studiavamo molto e i quei pochi soldi che ci rimanevano finivano in libri. Eravamo animati da passione culturale, oltre che sociale. Allora la politica aveva una funzione, poteva progettare. Il problema dei soldi si è posto quando la politica è diventata ininfluente.

Com’era la vostra vita?
Molto spartana, ma anche bella e entusiasmante. Mi capitava spesso anche di non avere lo stipendio per mesi, ma non ne ho mai fatto un elemento di vanto. Quando ero a Roma ed ero membro della segreteria nazionale dei giovani di Democrazia Proletaria vivevo in una stanza ricavata all’interno dell’ex cinema Doria che avevamo occupato e dove era nato il centro sociale “Alice nella Città” quando sono andato a Potenza a fare il segretario regionale di Rifondazione Comunista, dormivo in una brandina dentro la sede della federazione.

Quindi una vita di “sofferenze”?
Forse si, ma non le abbiamo mai declamate. Avevamo e abbiamo degli ideali, l’etica era determinata dal fatto che c’era un’idea che il tuo lavoro doveva servire a migliorare la condizione e di vita dei soggetti sociali di riferimento

Onestà e legalità sono baluardi della propaganda grillina. Ma prima queste parole cosa significavano?
L’onestà era una cosa ovvia rispetto alla politica. Ma sul rispetto della legalità, andiamoci calmi. Se avessimo dovuto rispettare la legalità, lo statuto dei diritti dei lavoratori non sarebbe mai esistito. Certe conquiste sono frutto di una disobbedienza alle regole e l’evoluzione sociale è sempre una forzatura del concetto della legalità. Chi lo difende in termini statici è un conservatore. Se siamo tutti uguali, come dice la Costituzione, bisogna superare tutte le condizioni che impediscono l’uguaglianza e ciò significa incentivare condizioni di conflitto sociale. Trovo che faccia più danni l’incompetenza della presunta disonestà, perché ha effetti drammatici sul paese. Bisognerebbe essere onesti e competenti.

La politica non ha più peso dunque?
Questa idea così assoluta, così ostentata, a volte ossessiva di puritanesimo, infondata nei fatti, diventa conservazione. Un movimento che incanala la protesta in qualcosa che tiene dentro tutto e di più – destra e sinistra, senza distinzione – e ha come unico elemento costitutivo l’onestà, non ha speranze di cambiare le cose. Non si può senza rifondare l’idea di società se si mantiene una logica conservatrice. La retorica contro “la Casta” prescinde da qualsiasi colore politico. Il motivo di tanto successo è che lo schema del discorso sulla Casta è accattivante perché deresponsabilizzante: c’è sempre un “io” e uno “loro”, c’è sempre un confine che divide una generica “società” e qualche “casta” di rapaci parassiti. Il risultato è che la “società” indifferenziata non debba mai mettersi in discussione, che basti denunciare la corruzione (che riguarda sempre l’altro) per sentirsi in pace con la coscienza.

Come andrebbero utilizzate le risorse dei partiti? 
Ci vogliono meno soldi e più servizi, strutture, spazi pubblici. È necessario prevedere agevolazioni per-le sedi, contributi alla stampa, spazi sulle TV pubbliche, etc – deve essere sostenuta ed agevolata la libera associazione dei cittadini e la loro partecipazione alla vita politica ed istituzionale.

Fonte: il Garantista

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