Una cava lotto per lotto
di Francesco Manfredi-Selvaggi
I lotti che durano 5 anni sono l’unità minima di una cava la cui durata, in genere, è prevista di 20 anni.
In un ragionamento sul recupero dei siti oggetto di esecuzione quando questa si è interrotta bisogna partire da qual è il modo corretto di recuperare una cava. Tale attività si informa alla regola, comunemente condivisa, che il recupero si attua già al momento della coltivazione; avviene cioè insieme all’estrazione, configurandosi con una fase, ovviamente finale, a sé stante. La configurazione che andrà ad assumere l’area una volta terminata l’estrazione dovrà essere pensata in funzione del suo inserimento nel contesto paesaggistico riproducendone le linee essenziali della morfologia.
Anche la vegetazione da impiantare è necessario che sia simile a quella del posto. Tutto quanto detto è valido sia per l’assetto finale del sito estrattivo sia per le fasi intermedie nelle quali, di solito, si suddivide l’attività di scavo. È la norma paesaggistica ad imporre, di fatto, una suddivisione in più momenti dell’estrazione perché l’autorizzazione ambientale ha durata di 5 anni mentre, magari, la concessione, per così dire, mineraria è estesa ad un tempo maggiore.
Alla conclusione del quinquennio di validità dell’autorizzazione paesaggistica l’area dovrà essere “consegnata” all’ambiente in maniera “accettabile”, facendo conto che il nulla-osta per le fasi successive non venga concesso o non possa essere concesso perché, mettiamo, è sopraggiunto un vincolo di immodificabilità per ragioni archeologiche, naturalistiche, ecc.. Ciò di cui non ci si può accontentare nel momento della chiusura di una cava prima che essa sia “esaurita” è una generica azione di reinverdimento.
Specie negli ambiti territoriali soggetti al vincolo paesaggistico (che sono la quasi totalità della superficie del Molise) non è consono un intervento di recupero che si limiti al mascheramento con specie vegetali degli scavi cioè con opere ex-post, anche in questo caso, quello di una fase di estrazione intermedia, occorrendo una idonea plasmatura dei gradoni che si ottengono con l’estrazione. Tali terrazzamenti, in altri termini, è indispensabile che siano in dipendenza non solo delle esigenze di tecnica mineraria, ma insieme di un preciso disegno di modellamento del versante; si ribadisce che ciò deve avvenire tanto una volta che sia concluso il ciclo estrattivo quanto nei vari step nei quali si articola l’attività di cava.
Invece, il recupero di frequente assume un significato assai marginale nella coltivazione di un sito estrattivo tutta l’attenzione essendo concentrata sull’escavazione che è l’oggetto centrale, se non esclusivo, dell’iniziativa imprenditoriale. La riqualificazione è pensata come una cosa che va fatta a posteriori e ciò, di conseguenza, la marginalizza nella programmazione aziendale. In definitiva, fin dall’atto autorizzativo occorre stabilire quale è la forma idonea paesaggisticamente che il luogo dovrà assumere alla cessazione del permesso di cava o di quella determinata fase di estrazione.
Diverso è il caso in cui il fronte è “attaccato” per settori, potendosi così prevedere sistemazioni finali per parti dell’attività estrattiva senza rimanere in attesa dell’ultimazione dello scavo nella sua interezza. In sede di Valutazione di Impatto Ambientale normalmente si esamina l’iniziativa imprenditoriale per l’arco temporale totale in cui è programmata; questo è, in genere, di 20 anni e, quindi, nel rilasciare il Giudizio positivo sulla VIA si è ritenuto ammissibile, per quanto riguarda l’aspetto naturalistico, che la cava pur durando per un periodo così lungo non provochi la rottura degli equilibri ambientali.
Gli effetti, cioè, del disturbo prolungato dovuto ai rumori provocati dalle pale meccaniche se non dalle volate, dei movimenti dei mezzi per il trasferimento degli inerti estratti, verso i punti di vendita ecc. non è stato considerato in grado di alterare definitivamente l’ecosistema. È pur vero che la natura tende a cercare sempre un proprio assetto. Non è, però, sufficiente, pur riconoscendo che il sistema ecologico possiede la dote della resilienza se non si superano certi limiti, aspettare il ciclo naturale di riassestamento che può essere molto esteso nel tempo bensì sono opportune azioni per la ricostruzione della struttura biologica al termine dell’escavazione.
Ciò vale sia per il momento conclusivo quando la cava è ormai esaurita sia per le singole fasi nelle quali si articola la coltivazione. Si potrebbe pensare, qualora alla scadenza del quinquennio nel quale è vigente l’autorizzazione paesaggistica quest’ultima non venga concessa nuovamente, a creare delle pozze d’acqua per favorire la sosta degli uccelli, dei corridoi per la fauna selvatica e così via. Finora, lo si ammette, si è parlato di fatti, per così dire, ideali distanti in tanti casi dalla realtà perché la programmazione dell’estrazione sia a lungo, ma specie a breve termine soffre dell’aleatorietà del mercato di sbocco che è l’edilizia la quale è un settore produttivo legato alla congiuntura economica.
La profonda crisi che ha interessato il nostro Paese nell’ultimo decennio ha colpito, e in maniera davvero consistente, pure i “cavatori” riducendo la domanda di materiali, pietre, pietrisco, sabbia, per le costruzioni. La colpa della difficoltà della pianificazione di una cava è, comunque, qualcosa di intrinseco di questo comparto. È davvero arduo fare previsioni sulle quantità di prodotto necessario per le costruzioni né se ci si riferisce all’attività edilizia ordinaria sia se si fa conto dell’avvio delle grandi opere infrastrutturali; per quanto riguarda la prima la stima della richiesta è necessariamente di scala locale non essendo redditizio, per via dei costi di trasporto, il conferimento del materiale di cava, una “materia prima” povera, verso destinazioni distanti.
Gli strumenti urbanistici, poi, che sono sovradimensionati non possono costituire la fonte delle informazioni sul fabbisogno. C’è il rischio che succeda che venendo meno l’esigenza di inerti da parte del mercato la cava si arresti non conseguendo neanche la conformazione fisica per lo stadio di lavorazione che si sarebbe dovuto raggiungere in quel quinquennio. Percettivamente tali siti emanano un senso di precarietà non essendo né cave attive né dismesse; neanche è legittimo pretendere una sistemazione ambientale che, invece, è rimandata al compimento dei 5 anni entro i quali è valida l’autorizzazione che, però, non essendo stato completato lo scavo sicuramente dovrà essere rinnovata prolungando nel paesaggio, chissà per quanto, l’effetto di non finito.
Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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