Quando l’ospedale prese forma
di Francesco Manfredi-Selvaggi
Due sono le tipologie prevalenti delle strutture ospedaliere, quelle a sviluppo orizzontale e quelle in verticale. È lo stadio finale di un processo che è iniziato dagli ospizi.
Fino all’inizio del XIX secolo, quindi nei millenni che lo hanno preceduto dalla comparsa della civiltà umana, non c’erano strutture che assomigliavano agli ospedali come noi li conosciamo. Seppure le due parole hanno una radice comune, l’ospizio medioevale è qualcosa di complementare diverso dall’ospedale. Gli ospizi che oggi si identificano quali edifici destinati alla terza età non avevano la funzione di dispensare cure mediche e, del resto, la medicina prima del 1800 era poco sviluppata. Negli ospizi ci si limitava ad assistere le persone con problemi di salute, fornendo loro cibo e riscaldamento se non riparo dalle intemperie e niente di più; non c’era una retta da pagare perché tale attività di assistenza era sostenta da associazioni caritatevoli o da istituzioni religiose.
La parola ospizio evoca proprio il dare ricovero a chi è nel bisogno, anche economico, soggetti, in genere, avanti negli anni, mentre nella casa di riposo, sempre per gli anziani, è previsto un contributo alle spese degli ospiti (termine, notasi, che richiama quelli di ospizio e ospedale). C’erano, poi, i lebbrosai, ma anche i luoghi dove erano tenuti segregati i malati di colera a causa di pestilenze, che servivano ad isolare coloro che erano colpiti da questi morbi molto contagiosi, ma non per curarli. Con l’epoca “positivista”, 150 anni fa, incominciò una rapida evoluzione della scienza medica, segnando l’inizio di una nuova fase.
Ci sono state, in quel particolare momento storico contrassegnato dal forte interesse per qualsiasi campo del sapere scientifico, numerose, fondamentali scoperte, prendi quella dei microrganismi e quelle nella chimica, che hanno avuto ricadute nella medicina e nella farmacologia, ad esempio l’anestesia. Si è partiti rivoluzionando, addirittura, il concetto stesso, di malattia, non più quella cosa indistinta cui rimanda anche il significato letterale del vocabolo peste che viene da peius, la peggiore malattia, non sapendo individuarla diversamente.
Si cominciava a definire la malattia meglio che in questo caso non si contrappone a peggio da cui deriva, come si è evidenziato, peste. È da allora che le autorità pubbliche hanno preso ad occuparsi della salute, innanzitutto quella collettiva per prevenire le epidemie; si comincia ad incoraggiare una corretta alimentazione e comportamenti igienici adeguati ed, in più, nascono i primi ospedali. Sono strutture sanitarie generaliste, usando un’espressione del nostro tempo, nelle quali si somministrano tanto i farmaci (il convento di S. Maria delle Grazie, il discendente diretto dell’ospedale Cardarelli, aveva una farmacia) e si praticavano operazioni chirurgiche le quali, in precedenza, venivano eseguite dai medici in ambulatori privati. Non si ha, dunque, più la separazione tra la farmaceutica e la chirurgia.
Gli ospedali non hanno, per tanto tempo una forma propria, i palazzi dove hanno sede essendo simili a quelli di monasteri, municipi, scuole ecc. ed è abbastanza recente lo sviluppo di tipologie edilizie apposite. Due sono i tipi architettonici che si affermano, distinguendosi l’uno, per l’andamento in orizzontale della pianta e l’altro per la sovrapposizione in verticale dei piani. Se si hanno meno livelli, si ottengono superfici planimetriche assai grandi e ciò permette una distribuzione dei vani senza condizionamenti, a differenza di quando si adottano schemi tipologici “in linea”, o a torre nei quali la disposizione dei locali è più vincolata.
Non è, comunque, una libertà assoluta quella che si ha se si sceglie di tenere tutte le funzioni nel medesimo piano in quanto per permettere a ogni ambiente di avere, per ragioni di luminosità, un affaccio esterno è necessario che in questo spazio in piano siano realizzate bucature quali patii o autentici cortili. Altro condizionamento all’articolazione interna delle attività è costituito dal blocco scale-ascensore che inevitabilmente c’è poiché i livelli non sono mai uno solo.
Un vantaggio che consegue dalla impostazione orizzontale è che c’è maggiore continuità spaziale dalla quale consegue (per non cambiare verbo, ma pure perché è efficace) la modularità dei vani: è una soluzione, questa di disporre sul medesimo livello le attività, che favorisce un’organizzazione ospedaliera per dipartimenti la quale presuppone un’aggregazione degli attuali reparti (uno per piano nel modello di ospedale verticale) con, anche, la possibilità di variazioni successive. L’impianto tendenzialmente orizzontale è favorito da due cose: che il suolo sia pianeggiante e che l’area assegnata sia estesa.
Passando al disegno architettonico in verticale della struttura ospedaliera dobbiamo subito sottolineare che esso è il più usato, si potrebbe quasi dire che è diventato ormai quello tradizionale. In gergo si parla di sistema piastra-torre, come se si trattasse di due edifici seppure collegati fra loro. Dal punto di vista funzionale vi è una separazione assoluta tra i due corpi, in quello basso, la piastra, trovandovi collocazione i servizi, mentre in quello alto, la torre, vi sono, suddivise per piano, come già si è detto, le sezioni di cura con le relative camere di degenza.
Si evidenzia che nella piastra ritroviamo l’impianto direzionato orizzontalmente, il quale, ad ogni modo, è più limitato di quello di un ospedale concepito interamente in piano e questa è un’annotazione non da poco poiché ne discende che l’occupazione di terreno è minore negli ospedali che sono impostati in altezza. Costruendo un manufatto multipiano si riduce, diminuendo l’impronta a terra del fabbricato, il costo degli espropri e con esso quelli di costruzione nonché di gestione allorché entra in esercizio. Vi sono vantaggi funzionali diminuendo, con la contrazione della planimetria, le percorrenze pedonali (sostituite da quelle effettuate con elevatori meccanici).
Infine è interessante osservare l’ospedale di Larino che ha orientamento orizzontale e, però, ha il suo unico livello posizionato in quota lasciando libera la particella sulla quale è impostato, uno spazio fruibile in svariati modi; qui l’orizzontalità dell’architettura non si associa alla piattezza del suolo che è in pendio per cui i pilastri che lo tengono sollevato da terra hanno misure differenti, minima quella dei pilastri a monte il che impedisce la destinazione a qualsiasi uso della fascia di terreno racchiuso tra le ultime campate del telaio in c.a..
Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
0 Comments