Due generazioni di ospedali, e la terza?

Francesco Manfredi-Selvaggi

Rispetto alle prime strutture ospedaliere quelle costruite negli Anni 70-80 del secolo scorso sono completamente diverse. Adesso si stanno invecchiando anche queste per cui occorrerà cominciare a programmarne di nuovi.

Ospedale è una parola che non definisce univocamente un oggetto, tanto è vero che chiamiamo ospedale, per fare un esempio, sia il “vecchio” Cardarelli, quello di via Petrella, sia il “nuovo”, quello di Tappino pur così diversi fra loro. Come altra esemplificazione prendiamo la Neuromed che non sappiamo proprio in che modo denominarla e, comunque, nessuno usa il termine ospedale per identificarla, tanto meno la direzione aziendale. I cambiamenti avvenuti nell’organizzazione sociale hanno spinto verso il cambiamento dell’idea stessa di ospedale, non più luogo di degenza prolungata (ospizio e ospedale hanno una radice comune) la quale ora viene limitata alla sola fase acuta della malattia.

La prima cosa che emerge, innanzitutto alla vista, nel confronto tra le strutture ospedaliere precedenti e quelle costruite negli Anni 70 del secolo scorso quando vennero realizzati gli attuali nosocomi molisani è la dimensione, quasi si fossero dilatati. Gli ospedali che oggi utilizziamo sono molto più grandi, sia in volume sia in altezza, rispetto a quelli del passato. Alla dilatazione fisica corrisponde un incremento della complessità delle funzioni; in altri termini, non si tratta di un semplice aumento dei posti letto perché a determinarne l’accrescimento della superficie, tanto in piano quanto in elevazione, ha inciso fortemente la crescita delle prestazioni di cura che gli ospedali forniscono.

Tutto ciò, cioè il moltiplicarsi delle attività assistenziali, poiché si svolgono all’interno, lo si percepisce, nel senso che lo si intuisce (chiaramente!) anche dall’esterno essendosi, oltre che dilatata dimensionalmente, la loro forma si è assai complicata. Detto diversamente, i nosocomi sorti negli ultimi decenni del XIX secolo non sono descrivibili quali “lievitazione” di quelli esistenti quasi ci fosse stato esclusivamente un cambio di scala. Se i primi fabbricati ospedalieri nati a fine ‘800, inizi ‘900 presentano un’indifferenziazione nella suddivisione spaziale, mancando una distinzione netta tra le discipline mediche in essi presenti, quelli successivi hanno un’articolazione degli ambienti assai superiore conseguenza della specializzazione che si è avuta degli apparati curativi.

Le tecniche medico-chirurgiche si sono sviluppate dando luogo ad un proliferare, e forse a un ipertrofismo, di specializzazioni, una per ciascuna patologia. È evidente che le esigenze di spazio si modificano. L’affermarsi della multispecialità nella pratica sanitaria porta ad un diverso modo di pianificare la distribuzione dei locali dell’ospedale. Va pure evidenziato che a partire, all’incirca dal 1970 ha inizio un’autentica rivoluzione nel campo sussidi biomedicali che ha contribuito a modificare il sistema di assistenza; sono pressoché coeve la risonanza magnetica e le moderne tipologie di edilizia sanitaria.

il tipo edilizio, in definitiva, non è dato una volta per tutte, una “ricetta” architettonica buona per qualsiasi “stagione”, ma cambia, evolve, oppure si stravolge nel tempo. Tale trasformazione avviene per fattori, per così dire, intrinseci, quindi legati all’evoluzione della medicina, e per fattori estrinseci, non determinata, cioè, dalle sopravvenute acquisizioni scientifiche nel settore medico-chirurgico, bensì da cause sociali. Le attrezzature ospedaliere, tutto sommato, vanno incluse nelle categorie delle attrezzature collettive, alla stregua di scuole, centri culturali, ecc. la cui concezione si trasforma nel tempo seguendo le mutazioni delle esigenze della popolazione: tra queste, per citarne una emblematica, c’è la domanda di privacy la quale si traduce, per quanto riguarda l’assetto dell’organismo sanitario, in richiesta di maggiore riservatezza del malato durate il periodo di ricovero.

Passi in avanti in tale direzione, senz’altro significativi ne sono stati compiuti con il passaggio dalle tradizionali corsie alle camere di degenza. In futuro, dovendosi peraltro variare in dimensione il numero di posti letto che avverrà ad invarianza dello spazio ospedaliero, si potrà intensificare la quantità di stanze individuali. È da ricordare che quello sulle condizioni di salute è definito nella nostra legislazione un dato sensibile. Questo è un caso di revisione della distribuzione interna al quale se ne dovranno aggiungere altri, dal passaggio dalla strutturazione per reparti a quella per dipartimenti, l’adattamento dei vani per ospitare le più recenti tecnologie sanitarie, il miglioramento delle sale d’attesa degli ambulatori attualmente prive di comfort e così via.

A differenza di quanto accade nella seconda tornata di edificazione dei nosocomi nella quale si scelse di farne sorgere di completamente nuovi evitando la strada della ristrutturazione di quelli storici, il prossimo futuro ci vedrà impegnati nell’adeguamento dei manufatti ospedalieri i quali ormai hanno tra i 40 e i 50 anni, alle normative sismiche che sono state introdotte da poco e, insieme, all’aggiornamento degli schemi distributivi per tener conto delle innovazioni nelle cure e, più in generale, dei bisogni che si vanno affermando nella società in materia di diritti personali collegati e quello, di rilevanza costituzionale, alla salute.

Per far ciò è indispensabile che gli impianti siano dotati di flessibilità e questa non la si ritrova quando gli edifici sono troppo caratterizzati tipologicamente. Prendiamo la classica architettura ospedaliera contemporanea, adottata, sia pure in parte, nel progetto del Cardarelli, costituita dall’abbinamento di due corpi differenti, uno basso, la piastra, e l’altro alto, la torre: la prima è flessibile, il secondo, essendo stretto, presenta una notevole rigidità nell’utilizzo, rivelandosi poco modificabile. Non significa, comunque, che debbano essere abbandonati, perché rappresentano per la loro mole un patrimonio edilizio enorme da valorizzare con impieghi diversi.

Francesco Manfredi Selvaggi633 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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